venerdì 19 dicembre 2008

Il Foglio. Diffidare delle ordinanze, delle carte e delle sentenze con troppi aggettivi (vedi il caso Romeo)

Dicono che la differenza tra un bravo giornalista e un cattivo giornalista sta nell’avere così tanto materiale da avere la possibilità di raccontare un fatto senza aver bisogno di descrivere nient’altro che quello che si è raccolto, o quello che si è visto. Quando si racconta qualcosa – almeno così insegnano – meno aggettivi ci sono, meno commenti ci sono, meno avverbi ci sono, meno parole che lasciano intendere opinioni ci sono, e meglio è. Punto.
La stessa cosa, dovrebbe valere per le sentenze, per le ordinanze e per tutto ciò che magistrati e gip scrivono per informare di un reato commesso e per provare a inchiodare un indagato. Quando un articolo di cronaca è pieno di aggettivi c’è qualcosa di strano: sembra quasi che ci sia qualcuno che ti voglia convincere di qualcosa senza avere argomenti sufficienti per farlo. Con “le carte” spesso funziona allo stesso modo, e allora dopo aver letto la nota che la procura di Napoli ha scritto sul gran casino napoletano c’è un aspetto che va notato, perché sempre più spesso capita che ci siano gip che scrivono sentenze o ordinanze dando l’impressione di non riuscire a essere totalmente distaccati. Quasi come volessero convincerci di un fatto non solo offrendoci le notizie di reato ma provando a persuaderci con l’uso di aggettivi e avverbi giusti.

Leggete qui. “Da quelle parole, ascoltate nel corso di una telefonate che egli, amabilmente, intratteneva con Giorgio Nugnes…”. Romeo, “padre-padrone di uno dei maggiori gruppi imprenditoriali romani”. “Si affrettava a replicare il pubblico funzionario infedele”. “Esclusivo ed egoistico interesse di Alfredo Romeo e delle sue imprese”. “Una commistione impressionante…”. “Dirà un esaltato consigliere comunale nel parlare con Romeo…”. Ecco, naturalmente questo non basta per dire che c’è puzza di bruciato. E’ vero, ci sono alcune cose che non tornano, il reato contestato agli indagati di Napoli non sembra essere ancora del tutto verificato. Si parla di appalti e si parla di tangenti, ma dalle carte non solo non risulta esserci nulla che riesca a dimostrare in modo chiaro che i politici indagati hanno ricevuto chissà quale beneficio dalla società Romeo (per capire: non si parla di mazzette, non si parla di favori fatti ai politici, etc etc), ma in più due di quei famosi appalti per cui sono finiti sotto indagine anche gli assessori della giunta di Napoli non risulta proprio che siano mai andati in porto, dato che l’appalto che doveva finire in mano alla Global Service dei Romeo (quello sulle strade del napoletano bandito dalla provincia di Napoli) è stato bloccato, e quello che invece era stato bandito dal comune di Napoli è stato stoppato da un ricorso al tar del 28 febbraio.
Claudio Cerasa
19/12/08

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Spero non risulti sgradita una critica: la ragione per la quale è doveroso diffidare, nello specifico, di una ordinanza che dispone una misura cautelare personale, non va rinvenuta nella quantità di aggettivazioni che infarciscono l'unicum descrittivo-motivazionale del provvedimento giuridico, ma si intuisce, più semplicemente ed immediatamente considerando che, al momento dell'emissione del provvedimento, il materiale indiziario che è a conoscenza del G.I.P. è quello fornitiogli dall'ufficio del P.M., professionalmente avvezzo a sostenere ipotesi di accusa, ed in genere restio, sebbene la legge glielo imponga espressamente, a fornire elementi di prova a favore dell'indagato.

Aggiungo: la presenza di aggettivazioni e il buon numero di avverbi che sempre si riscontra nei provvedimenti decisori di carattere penale, deriva dal fatto che il giudice non può fermarsi alla mera descrizione di un fatto: questo, da solo, non può integrare alcun reato. E' quindi necessaria un'altro tipo di indagine: quella relativa all'elemento soggettivo, nella quale è proprio l'aggettivazione che riempie di senso la condotta che, nel caso, si ritiene penalmente rilevante.

Infine, e concludo, non può stupire la non celata volontà di "convincimento" del G.I.P. di turno: bisogna ricordare che essa non è diretta alla opinione pubblica, delle cui reazioni un buon giudice non dovrebbe mai occuparsi, ma al giudice dell'impugnazione, che della legittimità del provvedimento sarà investito, obbligato anche questo a formare sullo stesso un "libero convincimento".

Anonimo ha detto...

Permettetemi di esprimere anche la mia di opinione:
Mi sento di dissentire in parte da quanto affermato da Manlio.
Difatti se da un lato è innegabile che l'impianto accusatorio sia stato fornito dalla Procura ( e pertanto necessariamente "infarcito" di opinioni personali dei P.M.), ciò che io personalmente non condivido è l'atteggiamento del GIP che ha redatto l'ordinanza.
Lo stesso avrebbe dovuto, a mio parere, esaminare i fatti scevro dalle connotazioni agli stessi attribuiti dalla Procura, proprio nello spirito di imparzialità e terzietà che dovrebbe caratterizzare la funzione giudicante rispetto a quella inquirente.
Detto ciò nella succitata ordinanza anche a me pare che ci siano troppi stralci delle richiesta avanzata dalla Procura ed una analisi poco approfondita dei "fatti" che avrebbero dovuto portare alla sua emissione.
Non concordo sul punto espresso dal mio predecessore: è dai fatti che nascono i reati ( e conseguentemente le misure cautelari adottande) e non dalla interpretazione degli stessi fatti dall'accusa.
ed infine una considerazione: se l'ordinanza deve reggere "il vaglio" del Tribunale del Riesame, probabilmente nell'estensore vi è la proccupazione che "i fatti" contestati siano meno "gravi" se scevri da tutti i commenti.
Sara