lunedì 11 ottobre 2010

Il punto di oggi (su Afghanistan, Cav. e Bersani)

Comprensibilmente, i giornali di oggi si concentrano sulle conseguenze politiche dell’ennesimo attacco mortale registrato in Afghanistan tra le truppe dei nostri soldati. La questione di fondo di cui si discute in questi giorni, e che ha posto due giorni fa il ministro Ignazio La Russa, è se sia sensato oppure no dotare di bombe i nostri caccia Amx e di missili i nostri aerei senza pilota (i così detti Predator). Se ne discuterà nei prossimi giorni in Parlamento ma intanto, nonostante alcune posizioni populiste alla Luca Zaia e alla Ignazio Marino, trovo significativo notare che da quando non ci sono i vari Diliberto, Rizzo, Ferrero e tutti gli altri si riesce a discutere di guerra senza sentirsi rimbombare nell’orecchio l’eco delle 10, 100, 1000 Nassyria. Nel senso che è giusto riflettere sulla nostra presenza in territorio afgano – e qui, come avrete capito, iniziamo ad avere dei dubbi – ma è altrettanto importante, in questi casi, poter constatare che in Parlamento non c’è (quasi) nessuno che abbia voglia di speculare politicamente sulla morte dei nostri soldati.

Qui il resto del post

sabato 9 ottobre 2010

Inizia la corsa di Maurizio Cevenini, alè

Come scriviamo da tempo da queste parti, oggi pomeriggio è iniziata la corsa di Maurizio Cevenini. Detto il Cev. Ci sarà da divertirsi a Bologna. Qui l'articolo pubblicato una settimana fa sul Foglio.

Qui il post

venerdì 8 ottobre 2010

Feltri, Porro, Sallusti e la ricerca della ciccia

Ho letto tutto quello che c’era da leggere sul caso Feltri, il caso Sallusti, il caso Porro e il caso Giornale e, a prima vista, credo che stavolta i magistrati stiano davvero rischiando di fare una figura non proprio fantastica. In nessuna delle intercettazioni pubblicate stamattina sui giornali vi è, secondo me, la minima traccia di una possibile e concreta minaccia alla Marcegaglia. C’è questo messaggino inviato da Porro al portavoce della Marcegaglia (quello famoso in cui Porro dice di voler mandare i segugi a Mantova, città natale del presidente della Confindustria) ma da qui a dire che quel messaggino possa essere interpretato come una minaccia di chissà che cosa contro la presidentessa mi sembra davvero eccessivo.

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Claudio Cerasa su Twitter

giovedì 7 ottobre 2010

Cosa succederà alle prossime elezioni

Al momento, a proposito di elezioni, l’unica cosa certa è che la prossima primavera si voterà in parecchi importanti comuni sparpagliati qua e là in giro per l’Italia. Per esempio, a Torino, a Bologna, a Napoli, a Salerno, a Siena e a Milano. Bene. Proviamo a fare rapidamente il punto di quello che sta succedendo in queste città partendo dal partito che prima degli altri, per via delle primarie (che dio le benedica), dovrà scoprire le carte e far capire le intenzioni che avrà: il Pd.
Continua qui con l'articolo

mercoledì 6 ottobre 2010

Il punto di oggi (su Fini, Bossi e il terzo polo)

La notizia del giorno riguarda naturalmente la nascita del partito di Gianfranco Fini. Ieri il presidente (e chi lo sa fino a quanto ancora) della Camera ha convocato i giornalisti a Roma per lanciare ufficialmente la sua creatura politica. Il nome del partito (o del movimento, come suggerito ieri da Campi) non è ancora certo (vi prego, ditemi che “finiani per il futuro” è solo uno scherzo) mentre invece sono ormai certi gli organigrammi (con Urso coordinatore).

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martedì 5 ottobre 2010

Gira un mezzo Berlusca di sinistra

Si chiama Maurizio Cevenini, sarà (probabilmente) il prossimo sindaco di Bologna.

A Bologna, oggi, Cevenini è semplicemente l’uomo del momento: i giornali parlano di lui, i bolognesi parlano di lui, le televisioni parlano di lui, al comune parlano di lui, allo stadio parlano di lui, nelle edicole chiedono di lui. E si parla di lui non soltanto perché Cevenini rischia di essere davvero il prossimo sindaco di Bologna ma anche perché questo strano democratico, che dice di non rimpiangere l’Ulivo, che dice di sognare un Pd all’americana e che dice di essere persino affascinato dalla teologia del professor Ratzinger, ha una caratteristica che di questi tempi ha tutta l’aria di essere merce rara tra i democratici italiani. Detto in due parole: il Cev. piace un casino e piace a tutti. E gli unici a cui sembra non piacere troppo sono i suoi compagni di partito. Il motivo? Un mistero. O forse no.

Qui l'articolo

Chi l'ha detto?

Di questi tempi, girano varie interpretazione sul significato reale di una parola misteriosa come "movimento". Continua qui.

Il punto di oggi (su Cav., Fini, Romani e Bossi)

Ci sono un sacco di cose di politica sui giornali di oggi. Tutto, e sarà così ancora a lungo, ruota attorno all’orizzonte tracciato in questi giorni da Berlusconi e da Bossi, ovvero: quando e come si andrà a votare? Non credo ci siano più dubbi. (qui per tutto il post)

venerdì 1 ottobre 2010

Clamoroso, il Pd dice sì alla massoneria

Qui.

Ragazze di vita, Rolling Stone giugno. Il caso Marrazzo un anno dopo

Il caso Marrazzo un anno dopo. Storia delle ragazzone di vita di Roma

Quando l’hanno ritrovata accucciata dentro un enorme sacco dell’immondizia con la gola tagliuzzata da sette colpi di pugnale e con il cuore che aveva smesso di battere da una dozzina di giorni, aveva ancora un anello di bigiotteria con dodici piccole pietre laterali ficcato nell’anulare destro, un paio di gustosi sandali neri con il tacco molto alto e un pacchetto di preservativi appena acquistato chiuso nella tasca stropicciata del suo cappotto color mandorla accanto a una ciocca di capelli finti e a un correttore usato la notte per coprire le macchie sulla pelle. Ansa, 28 dicembre 2009: “Ostia, recuperato cadavere nel fiume. L’inchiesta al pm del caso Marrazzo”. La corretta scansione temporale degli eventi dice che il killer l’ha abbordata, l’ha portata in macchina, le ha tappato la bocca, l’ha sentita smettere di respirare, poi l’ha ficcata nel bagagliaio di un fuoristrada e dopo aver percorso gli ottocento metri che separano il viottolo che costeggia il canneto sull’argine del fiume, a pochi passi da Ostia, e a pochi metri dall’Idroscalo, l’ha infilata in un sacco nero dandola in pasto ai topi alle nutrie che si trovano in quel territorio bonificato e lasciandola marcire lì dentro per almeno quindici giorni. Ai Ris è poi bastato un piccolo lembo di epidermide dell’indice della mano destra per dare un nome al corpo della donna: Giovanna. Qui a Ostia la conoscevano tutti, Giovanna: abitava e lavorava nella zona di Castel Fusano, a poca distanza dal fitto viale di alle porte di Ostia Antica dove la notte si ritrovava insieme con le sue colleghe (c’erano molte colombiane, diverse brasiliane e ultimamente anche parecchie argentine) e dove il suo cadavere è stato visto per la prima volta la notte di Santo Stefano. Giovanna era una di quelle generose signore che vivevano la notte strette nelle loro canottiere attillate – con scollature abbondanti, con jeans scuri attillati, borsette firmate e luci delle torce attivate con abilità intermittente per incantare quotidianamente il viandante di passaggio – il cui nome si ritrova spesso riquadrato negli annunci che compaiono dopo le offerte di lavoro alla fine dei giornali. A.A.A. Clodio transex bionda esageratissime emozioni abbondantissimo decoltè cercami A.A.A. Favolosa transessuale italiana 25enne bellissima sexy zona Cassia chiamami. A.A.A. Marconi appena arrivata trans 19enne decoltè insuperabilissime sensazioni chiamami. A.A.A. Termini potentissima trans nera grandi emozioni chiamami anche domani. A.A.A. trans grandissime emozioni 100 % disponibile veramente coccolona chiamami. A Ostia la chiamavano tutti così, “Giovanna”, sapevano che viveva sul litorale da quasi un anno, sapevano che era una delle più brave del lido, sapevano che sognava di fare l’estetista, sapevano che non aveva un permesso di soggiorno ma non sapevano che il nome di battesimo di Giovanna non era Giovanna, era un altro: era Carlos Eduardo Fernandes. E Carlos da Rio de Janerio detto Giovanna, con la sua storia, con la sua vita e con la sua esistenza vissuta nel cuore della nuova periferia romana, sarebbe piaciuta da impazzire alla penna di Pier Paolo Pasolini.

I carabinieri, forse qualcuno se lo ricorderà, hanno ripescato il corpo di Giovanna in un momento molto particolare. Erano i giorni i cui le redazioni dei giornali ricevevano quotidianamente tonnellate di veline relative a questo o a quel politico legato a questa o a quell’inchiesta a luci rosse: con i nomi di calciatori famosi, di politici rinomanti, di imprenditori affermati che comparivano in misteriosi e anonimi verbali sulle scrivanie dei cronisti. Erano insomma i famosi giorni dei trans: delle immagini che immortalavano indefinite polverine bianche depositate su fini tavoli di cristallo e dei pubblici ministeri impegnati giorno e notte a pronunciarsi sull’attendibilità di formosi omaccioni dai nomi esotici – Brenda, Jennifer, Rachele, Samantha – diventati protagonisti assoluti dell’ultimo trasgressivo e sanguinolento inverno capitolino. Un inverno in cui, quella di Giovanna, è stata, ed è ancora, una morte molto sospetta: forse legata a quella lunga serie di inquietanti intimidazioni ricevute dai transessuali romani – “Cazzi vostri se raccontate qualcosa dei vostri clienti: tenete chiuse quelle bocche” – tra l’autunno e l’inverno dello scorso anno, tra telefonate anonime, visite notturne non richieste, minacce di morte quotidiane, case in fiamme nel cuore della notte e copri ritrovati senza vita tra gli argini del Tevere. E’ successo con Brenda (la trans morta del caso Marrazzo), è successo con la sua amica Natalie, è successo con gran parte dei trans più famosi della Capitale, è successo anche con Giovanna; e non è certo una coincidenza se sul caso ha iniziato a investigare lo stesso pubblico ministero che dall’ottobre 2009 indaga sui gialli legati al caso Marrazzo (Rodolfo Gabelli). Nella storia di Giovanna c’è però qualcosa che va al di là della semplice cronaca giudiziaria, e che perfettamente rientra in quella ricca antologia dei buchi neri della città eterna in cui nascono i più affascinanti orrori di cronaca nera. Il fascino multiforme del tessuto periferico romano è stato per anni oggetto di strabilianti analisi letterarie pasoliniane, ma quelle zone effervescenti in cui la mente di Pasolini si immergeva per contaminarsi di esperienze e di ragazzi di vita altrimenti introvabili costituisce oggi il teatro di un frizzante spettacolo per certi versi infernale. Uno spettacolo dove i protagonisti vivono in un indefinito ambiente border line i cui luoghi, un tempo caratterizzati da un’irresistibile esplosione creativa, si ritrovano improvvisamente avvolti in una nube asfissiante: la cui presenza viene periodicamente svelata da fattacci di cronaca nera di cui i trans, con i loro corpi inafferrabili ed esteticamente indecifrabili, sono spesso vittime involontarie. E quando a Roma dici zona border line, quando cerchi di descrivere quello spazio misterioso che abbraccia le mura della Capitale, intendi dire qualcosa in più che una semplice zona periferica cittadina. “Si piomba – scrive Valerio Magrelli nel suo libro “Esercizi di tiptologia” (Einaudi 1992) – in un reticolo di vie, villette, prati, campi che annichilisce la facoltà di orientamento e annichilisce il paesaggio circostante. Il cataclisma ha generato aree enormi ed informi, una campagna ibridata, sintetica, mentre tintinna una spettrale catena di nomi che cinge l’urbe in una abbraccio funebre: la catenina d’oro e la marana, aureola, cintura sanitaria e pozzo nero. Pozzo nero”. Una spettrale catena di nomi che scandisce la geografia più estrema della città – il suo limes, il suo confine ultimo – con un’estetica sinistra persino nella toponomastica. E mettere insieme i nomi di questi quartieri lontani dal cuore della Capitale è quasi come battere su un tamburo. Ascoltate: Malnome, Malpasso, Malafede, Malagrotta, Valle Oscura, Passoscuro, Fosso Sanguinara, Femminamorta, Pantano dell’Intossicata, Campo di Carne Ponte del Diavolo, Cessati Spiriti, e Fontana del Bandito, Quarto de l’Impiccati, Coccia di Morto, Valle della Morte, Colle delle Forche, Canale del Morto, Canale del Mortaccino, Cavallo Morto, Lestra della Morte, Caronte, Piscina della Tomba, Pantano dell’Inferno e l’Infernetto: ovvero quel piccolo quartiere cerniera tra Roma e Ostia in cui Pasolini spesso capitava e in cui Giovanna da tempo vi abitava.

Le storie periferiche dei transessuali romani rivelano anche un tratto un po’ politico e un po’ antropologico non proprio insignificante. Gli anni ruspanti di Pasolini erano infatti coincidenti con una forte presa della parte politica che lo scrittore rappresentava (i comunisti) proprio nelle zone in cui nacquero super romanzi come Ragazzi di vita (1955). All’epoca, Roma era il simbolo di quelle periferie che avevano iniziato ad arricchire di consensi il bacino elettorale dei partito comunista, e nelle strategie di conquista degli effervescenti territori marginali di una Capitale la grande scuola della sinistra romana era diventata un modello per tutto il resto dell’Italia. Una volta morto Pasolini, Roma non ha più trovato un intellettuale capace di rielaborare con intelligenza le esigenze di quelle estreme zone romane inevitabilmente diventate nel corso degli anni (vedi per le ultime elezioni) il simbolo della disfatta del centrosinistra in questa preziosa porzione d’Italia. “A Roma – ci racconta l’ex vicesindaco Walter Tocci, che oltre che essere stato comunista ammette anche di essere un pasoliniano de fero – il problema dei confini della città, non solo urbanistico ma soprattutto letterario, è quello di avere una serie di nuclei chiusi separati l’uno dall’altro che determinano una frequente ricorrenza di oscure sacche geografiche all'interno della città. E’ in queste zone, in questi margini discontinui che oggi più di ieri avrebbero fatto impazzire d’amore Pasolini, che si sono verificati omicidi come quello di Giovanna Reggiani, stupri come quelli degli sposini olandesi e assassini come quelli dei trans, e come quello di Ostia. Si sa: a Roma, probabilmente più che in ogni altra città d’Italia, la parola marginalità coglie sia il significato sociale che quello urbanistico”. Ed è proprio in questo gioco perverso dove diabolicamente si mescolano rossetti, fondo tinta, tacchi alti, correttori, sacchi neri, preservativi e donne labbrute con barba sfumata e ottava di reggiseno; in questo gioco dove lussuosi cantieri navali del porto turistico di Ostia tornano periodicamente a simboleggiare un preciso cambio di paradigma culturale Pasolini, se fosse ancora vivo, si sarebbe certamente fermato per prendere carta e penna, per studiare il caso di Brendona e di Giovannona e scrivere un gran libro ambientato a Ostia e intitolato probabilmente più o meno così: “Ragazzone di vita”.
Claudio Cerasa
Rolling Stone, luglio 2010

Via Poma, su Rolling Stone di agosto

Uomini (forse) che uccidono le donne.

Dopo vent'anni di indagini, ma senza alcuna prova schiacciante, a giorni riparte il processo sul delitto di via Poma. Ma allora perché tutti questi finti scoop sul Dna? Facile: basta fare un giro su Google Map

Vent’anni dopo siamo ancora a quella sorridente ricciolina in bianco e nero fotografata con le gambe stese su un telo di spugna poggiato su una poco confortevole spiaggetta di uno squallido litorale romano. Vent’anni dopo siamo ancora alle raffinate disquisizioni sulle evoluzioni delle indagini, sui rilievi della scientifica, sulle attendibilità dei testimoni e sulle ultime documentazioni fotografiche in base alle quali i pubblici ministeri continuano a valutare appassionatamente le compatibilità delle arcate dentarie degli ex fidanzati della ragazza romana. Vent’anni dopo la parola Cesaroni ha persino fatto in tempo a trasformarsi nel titolone di una fortunata serie televisiva ambientata nell’allegro quartiere periferico della Garbatella, ma nonostante le spensierate performance del gagliardo Giulio, interpretato da Claudio Amendola, e della dolcissima Elena Sofia Ricci, nella parte di Elena, la verità è che Cesaroni resta ancora per la capitale il cognome che ha terrorizzato per anni un’intera generazione di pischelletti romani. E quando pensi a quel cognome, a Roma, diventa tutto un flash: la palazzina liberty, gli ingressi a forma di portici, le colonne ricoperte di travertino, le fontane di marmo fasciate di oleandri e poi il portiere, il fidanzato, l’architetto, la notte del sette agosto, il reggiseno slacciato, i seni scoperti, il top arrotolato, le mutandine strappate, i calzini bianchi, le scarpe da ginnastica e soprattutto il nome di quella stradina incisa sul marmo di uno dei palazzi ormai più popolari di Roma: via Poma.
Ho vissuto per quindici anni a ottocento metri dalla scena del delitto più famoso degli ultimi vent’anni. Via Poma è una stradina nel cuore del quartiere residenziale Prati, una zona di vecchi cannetti a due passi da San Pietro, a pochi metri da viale Angelico, a tre fermate dallo stadio Olimpico, piena zeppa di studi di avvocati, di caserme di militari, di licei fricchettoni, di terrazzi di giornalisti, di studi di registi, di agenzie fotografiche, di case cinematografiche e di elegantissime scuole medie ed elementari. E chiunque all’epoca frequentasse quelle scuole, davanti a via Poma ci passava ogni giorno – e solitamente, lo dico per esperienza, ci si pisciava sotto. C’era chi deviava, chi accelerava, chi temporeggiava, chi si scoraggiava e chi semplicemente, ogni volta che sfiorava il cancello del palazzone da cui non molto prima era uscito il corpo freddo di Simonetta, chiudeva gli occhi e subito se ne scappava.
Per anni e anni, a Roma il caso Cesaroni è stato il simbolo del ventre sofferente di una città che da decenni si ritrova condannata a convivere quotidianamente con l’insostenibile peso dei suoi misteri irrisolti: un flusso continuo di indecifrabili enigmi che spesso costringe il romano a ritrovarsi come se fosse protagonista di un grande giallo in cui quei delitti vivono insieme tutti quanti senza che sia più possibile distinguere i singoli particolari: da via Poma all’Olgiata, da Emanuela Orlandi a Marta Russo e così via. E in quel periodo, per chi abitava nel quartiere del grande giallo, del giallo di Simonetta, era facile avere un amico che viveva a via Poma, una compagna che era figlia di uno dei portieri, una maestra che abitava vicino alla casa di Simonetta, un conoscente con lo studio di fianco al luogo del delitto. Ed è facile immaginare come ognuno di noi, ognuno dei compagni, su via Poma aveva un flash sinistro: c’era chi in quella via giurava di aver visto più un’ombra sospetta; chi scambiava ogni fruscio per una minaccia; chi raccontava di una confidenza segreta; e chi ogni giorno ripiegava in una cartellina spiegazzata i dettagli di quella storia così travagliata. Una storia ambientata in una Roma che in quei giorni era terribilmente assetata di notizie. Era quella la Roma delle rivoluzioni urbanistiche, la Roma dei Montezemolo con i primi telefoni cellulari, ma era soprattutto la Roma delle sue storiche notti magiche dei campionati mondiali: con Zenga, Schillaci, Maradona, Matthäus, Brehme, Caniggia, Taffarel e tutti gli altri. E fu proprio la fine dell’epica nazionalpopolare dell’appena concluso campionato Mondiale che in quei primi giorni di agosto aveva contribuito a creare una domanda di notizie che dopo le cronache calcistiche sarebbe stata possibile soddisfare solo se ci fosse stato un’altra grande storia da raccontare. Ogni estate, si sa, i giornali privi di grandi spunti suggeriti dall’attualità si rifugiano nelle paludi della cronaca per scovare indicazioni utili a saziare i lettori sempre più affamati di storie che valgano il prezzo del biglietto, e riempire le pagine con le notizie sulle spiagge chiuse per improvvise invasioni di meduse, o con drammatici reportage sugli ultimi esemplari di balene rinvenuti sulle coste della Papa Guinea, può essere utile per qualche settimana ma alla lunga un pochino stanca: e anche per questo, e soprattutto in quel periodo, i misteri di via Poma arrivarono in un momento semplicemente perfetto. Ma c’è di più. Come oggi cinicamente ricordano molti cronisti che vent’anni fa scarpinarono a lungo tra le rampe liberty degli ampi androni del palazzo di via Poma, beh, il delitto di Simonetta arrivò non solo nel momento giusto ma anche nel posto giusto. Perché chiunque avesse avuto la possibilità di passeggiare negli anni Novanta attorno a quella via che pareva stregata sapeva che una delle ragioni per cui via Poma ebbe una così grande, per non dire maniacale, copertura da parte delle forze giornalistiche era facile da comprendere: via Poma si trovava giusto a pochi metri dai palazzoni di Viale Mazzini, la sede storica della Rai, e non è dunque poi così complicato capire quale ghiotta occasione fosse per i cronisti seguire il delitto del secolo a due passi due dalla propria scrivania. Ma, oltre a soddisfare l’esigente pubblico maledettamente desideroso di notizie, quella straordinaria copertura mediatica contribuì a creare un vero e proprio cortocircuito attorno all’omicidio. Il delitto di Simonetta è stato infatti uno dei primi casi in cui gli inquirenti si sono ritrovati a dover fare i conti con una così imponente opinione pubblica che altro non chiedeva a poliziotti e investigatori di tirar fuori, con una certa fretta, quel dannato omicida. E si sa: quando il pubblico ringhia affondando i denti sul collo degli investigatori – datece er mostro, datece l’orco, datece subito quel maledetto assassino –chi dirige le indagini si ritrova nelle condizioni di mollare ogni tanto qualche osso al cane affamato. E di ossi, le strade di via Poma, ne sono piene da quasi vent’anni.
Il primo osso si chiamava Pietro Vanacore: era il portiere dello stabile di Simonetta, venne accusato di aver ripulito il luogo del delitto, fu incastrato per un paio di macchie di sangue ritrovate sul tessuto dei propri pantaloni e fu arrestato per ventisei giorni; poi si scoprì che quelle macchie non erano di Simonetta ma erano proprio di Pietro (che sì, soffriva di emorroidi), quindi Pietrino uscì dal carcere, continuò a vivere per un po’ a Roma, poi si trasferì in Puglia e a vent’anni di distanza dall’arresto, il nove marzo di quest’anno, tre giorni prima della sua testimonianza alla prima udienza (sì sì: la prima) del processo di via Poma, Pietrino è stato ritrovato morto sulla spiaggia di Torre Ovo, vicino Torricella, in provincia di Taranto; e poco lontano dal luogo dove venne ripescato il corpo furono recuperati anche due biglietti sul sedile della sua auto. Il primo: “Venti anni di sofferenze e di sospetti ti portano al suicidio”. E poi il secondo: ‘‘Vent’anni di persecuzioni: sono stanco delle angherie’’.
Il secondo osso dato in pasto ai cronisti si chiama invece Raniero Busco: ha 44 anni, due figli, una moglie e un’accusa di omicidio sulle spalle. Busco è stato l’ultimo fidanzato di Simonetta, ha incontrato la ragazza la sera prima dell’omicidio e l’indizio principale contro di lui risulta essere l’impronta di un morso rinvenuto sul seno sinistro della ragazza, fotografato durante l’autopsia e considerato dall’accusa corrispondente all’arcata dentaria proprio dell’ex fidanzato. Questo, solo questo: perché vent’anni dopo a via Poma molto altro non c’è: solo una traccia genetica estratta dalla saliva di un indagato che con tutta la buona volontà possibile si fa fatica a considerare una prova schiacciante. Ecco sì, difficile non ammetterlo: chiunque sia stato in qualche modo a contatto in questi anni con l’universo in cui si è generato il misterioso caso di via Poma ha avuto la possibilità di accorgersi di un particolare che non può essere sfuggito neanche all’occhio dell’osservatore più distratto. Inutile girarci attorno: col passare del tempo il delitto di Simonetta è diventato l’esempio perfetto di quali siano i più velenosi tra gli ingredienti con cui un’inchiesta giudiziaria può trasformarsi in una polpetta avvelenata: indagini infinite, esami inadeguate, prove irrilevanti, interrogatori fuorvianti, indagati innocenti e piste il più delle volte completamente toppate. E che il caso di Simonetta sarebbe stato quasi impossibile da risolvere ce ne accorgemmo una mattina di quindici anni fa, quando tra gli articoli raccolti nella speciale rassegna organizzata dagli studenti del quartiere spuntò fuori una notizia che speravamo fosse falsa; e che invece, dannazione, era proprio vera. La notizia riguardava i risultati di quella che all’epoca veniva definita una “tecnica di indagine rivoluzionaria” e che invece, in fin dei conti, si rivelò essere un mezza cialtronata. La storia della comparazione genetica con il sangue prelevato dalle vene di una quindicina di indagati, e le successive entusiastiche dichiarazioni degli investigatori che ripetevano alla stampa di essere ormai “prossimi alla cattura dell’assassino”, si trasformarono in un boomerang che fini dritto negli occhi degli investigatori. E le famose tracce rosse lasciate dall’assassino sulla porta della stanza dove Simonetta venne torturata vennero clamorosamente custodite per un giorno intero non nel fresco di un laboratorio specializzato ma nel caldo umido di un obitorio romano. Forse in pochi oggi se ne ricordano, ma di quel pasticcio gli investigatori se ne accorsero solo il 23 agosto, tredici giorni dopo l’omicidio: quando il sangue incriminato si era di fatto volatilizzato proprio come le uniche tracce dell’assassino di quella ricciolina della foto in bianco e nero.
Claudio Cerasa
Rolling Stone, agosto 2010

martedì 27 aprile 2010

La presentazione con Veltroni, Alemanno, Regina, Mondello, Pambianchi all'Aniene

Ho presentato ieri sera al circolo canottieri Aniene il mio libro su Roma – la Presa di Roma – con parecchie persone che su questa città non la pensano necessariamente come me ma con cui è stato davvero un piacere chiacchierare. C’erano Gianni Alemanno, Walter Veltroni, Aurelio Regina, Andrea Mondello, Cesare Pambianchi, Giovanni Malagò e Luisella Costamagna. Abbiamo parlato di diversi argomenti contenuti nel mio libro e alcune cose dette secondo me meritano di essere raccontate. I tre relatori più legati al mondo imprenditoriale romano (Mondello, che è presidente della Camera di Commercio, Pambianchi, che è numero uno dei commercianti di Roma, e Regina, numero uno degli industriali romani) erano sostanzialmente d’accordo con una cosa che dico in maniera chiara nel mio libro. Lo hanno detto loro stessi: la presa di Roma è avvenuta perché gli amministratori (di sinistra) della Capitale hanno privilegiato troppo un piccolo gruppo di imprenditori della città; e gli altri, loro compresi, si sono ribellati. Alemanno è stato cortese e critico nei confronti del mio libro. Ha letto il finale del libro, in cui spiego come il sindaco di Roma ha tutte le carte per potersi presentare alla fine del suo mandato come candidato alla presidenza del consiglio, e sfottendomi un po’ ha detto che pensare a una cosa del genere porta Jella, “guardate – ha detto con Veltroni che lo guardava sconcertato – come sono finiti gli altri sindaci di Roma che hanno provato a fare i presidenti del consiglio”.

Una cosa che il sindaco di Roma non ha invece ben compreso del mio libro riguarda il tipo di descrizione che faccio della città. Alemanno sostiene che la Presa di Roma sia un romanzo storico in cui Roma viene descritta come un insieme di gente senza scrupoli e di malaffare che scorazza per la città, “quasi come se fosse una Chicago degli anni Trenta”. Io ho cercato di spiegare al sindaco che descrivere la meccanica della conquista della città comporta anche il dover mostrare i volti delle persone di potere che tentano ogni giorno di influenzare le scelte degli amministratori della Capitale, e a Roma queste persone ci sono. Niente di male: gli uomini di potere, specie quelli che fanno girare un sacco di soldi nella città, sono importanti perché se vengono coinvolti con intelligenza negli affari della città sono in grado di produrre ricchezza per la stessa città. Un conto però è collaborare con loro, un altro è seguire la loro agenda. Ho fatto poi notare ad Alemanno che Roma è una città che ha il pregio di essere in continua evoluzione da ormai diversi anni. Roma, chi ci vive lo sa, è una città dove non si vive benissimo ma dove si vive certamente meglio di qualche anno fa. La sicurezza, checché se ne dica in campagna elettorale, è un problema che riguarda più la percezione che altro: dal 2007 a oggi il trend dei reati segna un calo continuo e il merito è di tutti: sia del sindaco precedente sia di quello attuale. Veltroni – che parlando con Giovanni Malagò, presidente del Circolo Aniene, ha lanciato un messaggio piuttosto chiaro a Bersani: “Caro Giovanni, in Italia funziona che quando si amministra qualcosa o si governa qualcosa chi viene dopo di te tende sempre a voler azzerare tutto quello che tu hai fatto spiegando sempre, in modo davvero bizzarro, che bisogna ricominciare da zero” – ha invece contestato in modo garbato una dei temi secondo me più delicati che esamino nella prima parte del libro. Io sostengo che la sinistra a Roma, specie nelle ultime elezioni, abbia fatto emergere in maniera clamorosa uno dei suoi tratti più deficitari nelle sue politiche attuali: attenzione zero per le periferie. Quello che nel libro chiamo il modello campo de fiori è un esempio di schema politico che dedica molte attenzioni al centro della città e che si ritrova costretto a trascurare le zone periferiche.

Veltroni dice che sostenere che la sinistra abbia trascurato le periferie è una baggianata. Riguardando però con attenzione non soltanto i dati con cui Alemanno ha battuto Rutelli nel 2008 (due terzi dei voti sono arrivati dalle periferie, e non è poco) ma anche le ultime elezioni regionali (nel Lazio, il centrosinistra ha perso perché ha perso tutte le province periferiche) e anche gli ultimi risultati nazionali (il centrosinistra in Italia, fateci caso, non riesce a essere maggioranza in nessuna delle regioni periferiche italiane) il dato che la sinistra non sappia più farsi interprete delle esigenze locali dei suoi elettori purtroppo mi sembra un dato di fatto. Altra cosa che poi ho segnalato nella mia replica agli ultimi due sindaci di Roma. Si può pensare ciò che si vuole di Veltroni e di Alemanno e persino di Rutelli, ma c’è un dato di fatto incontestabile che va preso in considerazione quando si parla delle leadership romane. Non c’è nessun’altra città italiana – né Milano, né Torino, né Napoli, né Palermo: nessuna – che sia stata capace di produrre negli ultimi anni una nuova classe dirigente come quella romana. Veltroni, Rutelli e secondo me anche Alemanno, rappresentano, o in certi casi hanno rappresentato, tre modelli di leadership nazionale che possono piacere o non piacere ma che non sono passate inosservate. Alemanno dice che non ha intenzione di candidarsi tra tre anni a Palazzo Chigi. Bene, vedremo se manterrà la promessa.

Qui tutte le cose che sono uscite sulla serata di ieri

RIFORME: ALEMANNO, IL FEDERALISMO FISCALE? MAGARI ARRIVASSE SUBITO (ASCA) - Roma, 26 apr - ''Magari arrivasse presto il federalismo fiscale''. A dirlo il sindaco di Roma Gianni Alemanno nel corso della presentazione del libro di Claudio Cerasa ''La presa di Roma'' presentazione ancora in corso al circolo canottieri Aniene alla presenza tra gli altri anche di Walter Veltroni e del presidente dell'Unione Industriali, Aurelio Regina. Alemanno ha spiegato che ''il fatto di essere capitale e' un macigno che ci portiamo sulle spalle'' e per questo ha posto l'accento sulla necessita' che si arrivi presto al federalismo fiscale. Alemanno ha anche spiegato che dal 1870 in poi in questo paese non si sono mai fatti i conti col fatto che Roma e' la capitale e non un qualsiasi comune. bet/sam/lv 262042 APR 10 NNNN

ROMA: ALEMANNO, PD SI LIBERI DA CHOC E FACCIA OPPOSIZIONE CONSAPEVOLE Roma, 26 apr. (Adnkronos) - "Il pd si liberi da choc e traumi accumulati come il Comune di Roma e la Regione e faccia un'opposizione piu' composta e consapevole". E' quanto ha dichiarato il sindaco di Roma Gianni Alemanno intervenendo oggi al Circolo Canottieri Aniene alla presentazione del libro di Claudio Cerasa, 'La presa di Roma', rispondendo all'ex sindaco di Roma Walter Veltroni che accusava l'opposizione di avere una aplomb poco anglosassone. Il sindaco di Roma ha inoltre aggiunto di avere spesso problemi "per trovare interlocutori con i quali affrontare i problemi romani". (Cap/Gs/Adnkronos) 26-APR-10 21:00 NNNN

COMUNI:ROMA;VELTRONI,MAI INTERVENTO BETTINI IN NOSTRE SCELTE (ANSA) - ROMA, 26 APR - ''Voglio sgombrare il campo da un dubbio: Goffredo Bettini non e' mai intervenuto nelle scelte che abbiamo fatto a Roma, cosi' come Gianni Letta, che io ho sempre definito il volto umano dello schieramento avversario, lo chiamavo quando c'erano dei corto circuiti''. Lo ha detto l'ex sindaco di Roma, Walter Veltroni, oggi deputato, durante la presentazione del libro di Claudio Cerasa, caporedattore de Il Foglio, 'La presa di Roma', alla quale ha preso parte anche il sindaco Gianni Alemanno. Veltroni ha sottolineato di essere tornato a parlare di Roma, tranne alcune occasioni specifiche, dopo due anni. ''Quando si cambia lavoro - ha aggiunto - si cambia lavoro e non si deve intralciare chi viene dopo di te. Verra' il tempo per un giudizio su Alemanno ma questo non e' il luogo''. L'ex sindaco ha parlato dell'Italia anche come di un paese dove ''chi e' eletto deve dimostrare di cominciare da zero. E' un paese fatto cosi'''.(ANSA). TAG/IMP 26-APR-10 21:16 NNN

COMUNI: ROMA; VELTRONI A ALEMANNO, SARAI SINDACO FORMULA 1 (ANSA) - ROMA, 26 APR - ''Quando finirai il tuo mandato sarai considerato il sindaco della citta' della Formula 1, come qualcuno ha parlato di me come il sindaco della Festa del Cinema che, viva Dio, abbiamo fatto bene a realizzare''. Lo ha detto l'ex sindaco di Roma Walter Veltroni, oggi deputato, durante la presentazione del libro di Claudio Cerasa, caporedattore de Il Foglio, 'La presa di Roma', dove era presente anche il sindaco Gianni Alemanno.(ANSA). TAG/IMP 26-APR-10 21:22 NNN

COMUNI: ROMA; ALEMANNO, SINDACO PER FARE SCALATA?PORTA IELLA (ANSA) - ROMA, 26 APR - ''Nel libro leggo che starei cercando di fare cio' che hanno fatto in precedenza Rutelli e Veltroni, utilizzando Roma per fare una scalata nazionale. Ma loro non ci sono riusciti e ora, secondo Cerasa, ci starei provando anche io. Non c'e' nulla che porti piu' iella di pensare una cosa del genere''. Lo ha detto il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, durante la presentazione del libro di Claudio Cerasa, 'La presa di Roma'. ''Quello di Cerasa - ha aggiunto - e' un libro dove Roma viene descritta come una serie di bande di simpatici mascalzoni. Per fortuna le cose non stanno cosi'. Non lo definirei un libro di cronaca ma un bel romanzo storico''.(ANSA). TAG/SCN 26-APR-10 21:23 NNNù

PDL: VELTRONI, GIANNI LETTA IL VOLTO UMANO DELLO SCHIERAMENTO AVVERSARIO MAI INTERVENUTO COME DEL RESTO GOFFREDO BETTINI Roma, 26 apr. (Adnkronos) - "Goffredo Bettini non e' mai intervenuto in alcuna scelta amministrativa, ma nemmeno Gianni Letta. Il 'volto umano' dello schieramento avversario. Lo chiamavo soltanto quando c'erano cortocircuiti da risolvere, come quello sulla casa". E' quanto ha dichiarato l'ex sindaco di Roma Walter Veltroni, intervenendo oggi accanto al sindaco di Roma Gianni Alemanno al Circolo Canottieri Aniene alla presentazione del libro di Claudio Cerasa, 'La presa di Roma'. (Cap/Opr/Adnkronos) 26-APR-10 21:23 NNNN

ROMA: ALEMANNO, OPPOSIZIONE SUPERI TRAUMA PERDITA CAMPIDOGLIO (AGI) - Roma, 26 apr. - "L'opposizione e il Pd di Roma si liberino dai traumi accumulati in questi due anni e cerchino di fare un'opposizione piu' composta e consapevole. Spesso ho difficolta' a trovare interlocutori". Lo ha detto il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, intervenendo in serata alla presentazione del libro "La presa di Roma" del giornalista Claudio Cerasa. All'evento ha partecipato l'ex primo cittadino Walter Veltroni che aveva stigmatizzato "quel costume nazionale, poco anglosassone, per cui chi giunge al potere giudica negativamente il lavoro di chi e' venuto prima". Tuttavia, secondo Alemanno le polemiche rispetto alle passate amministrazioni non sono da attribuire solo al contegno dell'attuale maggioranza ma anche a quello dell'opposizione, "che non ha avuto la maturita' di capire che abbiamo ereditato problemi pesanti che non erano certo provocati dai nostri pochi mesi di governo". (AGI) Cli/Chi/Dma/Fra 262134 APR 10 NNNN

ROMA: VELTRONI, SINISTRA PERSE PER PERIFERIE? E' UNA BAGGIANATA (AGI) - Roma, 26 apr. - "E' una baggianata dire che le periferie hanno condannato il centrosinistra" alle ultime elezioni comunali vinte dall'attuale sindaco Gianni Alemanno, e che "siano state il principale motore di uno spostamento degli equilibri politici nella citta'". E' quanto ha sostenuto l'ex primo cittadino della capitale, Walter Veltroni, intervenuto in serata alla presentazione del libro 'La presa di Roma' del giornalista Claudio Cerasa. Era presente anche lo stesso sindaco Alemanno, che pero' ha una lettura diversa di quanto accadde due anni fa: "nei quartieri centrali ha vinto il centrosinistra, ma nelle periferie abbiamo vinto noi ovunque". Una ricostruzione che, secondo Veltroni, sarebbe invece smentita dai dati: "le periferie hanno votato per noi sia nel 2006 che nel 2008 - ha concluso - e questo non sarebbe potuto accadere se le avessimo governate male". (AGI) Cli/Stp 262152 APR 10 NNNN

La Presa di Roma su Repubblica/2

«Si parla di "Presa di Roma" come se fare il sindaco per me volesse dire ricalcare le orme di Rutelli e Veltroni e utilizzare il Campidoglio per tentare poi il colpaccio al potere nazionale. Non mi interessa, anche perché non c´è niente che porti più iella». Ironizza il sindaco Gianni Alemanno sul suo possibile futuro da premier e sgombra il campo da dubbi su una scalata a Palazzo Chigi nel 2013.
L´intervento del primo cittadino arriva durante il dibattito sul libro del caporedattore de "Il Foglio" Claudio Cerasa dal titolo appunto "La Presa di Roma" (Rizzoli) che racconta l´evoluzione di una città da Rutelli al modello Roma di Veltroni e del suo deus ex machina Goffredo Bettini fino alla capitale "espugnata" dal centrodestra e ai diciotto mesi di governo alemanniano.
Una presentazione alla quale ha partecipato anche l´ex sindaco Walter Veltroni. «Dopo due anni, tranne specifiche occasioni in cui mi era richiesto, torno a parlare di Roma - sottolinea un Veltroni in grande forma - Quando si cambia lavoro, si cambia e non si deve intralciare chi viene dopo di te».
Poi, quando inizia a parlare della sua città, Roma, è un fiume in piena. «Abbiamo cercato di scardinare tutti i pregiudizi su Roma: che fosse pigra, che qui nessuno lavora, una metropoli di ministeri senza però anima e dove i potentati economici sono i padroni - racconta il parlamentare - Prima di Rutelli c´erano gli assessori che venivano portati via dalla polizia perché si rubavano anche i piattini, poi l´immagine è stata cambiata anche realizzando l´Auditorium, il nuovo Car, la nuova Fiera di Roma, i cantieri per la metro. Avevamo un´idea di città che abbiamo messo in campo, giusta o sbagliata che sia, ma senza spirito e anima non si governa».
E ancora: «Mi ricordano per la Festa del Cinema e meno male che l´abbiamo fatta perché ha rilanciato il turismo, tu invece sarai il sindaco della Formula 1». Nel libro si analizza la sconfitta del centro-sinistra proprio a partire dalle periferie e Veltroni sottolinea: «È lì che abbiamo fatto il grosso del nostro lavoro, non abbiamo perso, è una baggianata perché abbiamo preso il 40% dei voti». Smentisce Alemanno che ammette di consacrare la sua vittoria proprio grazie alle periferie.
«Nelle zone centrali ha vinto la sinistra, ma in periferia noi ovunque. E questo grazie al rigore e alle regole che vogliamo dare a Roma. Ora la città è più sicura, lo dicono i dati sulla diminuzione dei reati», precisa il primo cittadino e aggiunge «La Presa di Roma è un bel romanzo su Roma, ma scollato dalla realtà». Replica fermo Claudio Cerasa: «Un libro scritto in modo romanzato certo, ma che descrive la città con tanti dati e molte interviste. È il tentativo di descrivere le leadership di Roma e i meccanismi di conquista di una città».
27 aprile 2010

Laura Serloni

venerdì 9 aprile 2010

La Presa di Roma su Sette

La buona novella venne annunciata nel gennaio 2001, sull'"Espresso". Addio circoli del tempo che fu, quelli con le riunioni conviviali una volta al mese, coi soci legati da solide consuetudini, facili sintonie che si traducevano in chiacchierate da cui poteva dipendere il mondo, o, almeno la parte del medesimo più a portata di mano. No, d'ora in poi nessun bisogno di maggiordomi assidui, regole sconvolgenti come il divieto ai telefonini e, tantomeno, di appuntamenti inevitabilmente difficili da rispettare. Tutto in rete. A distanza. A qualunque ora. Era nato Retronet: «L'ultimo club vip della new economy. Quindici soci fondatori, una sede più virtuale che reale... L'obiettivo di unire in un solo gruppo i primi animatori del web italiano». Nove anni dopo, di Retronet si sono perse le tracce.È l'epoca dei social network, dall'universale Facebook a Odnoklassniki che pare funzioni solo in Azerbaijan, tutti impegnati a infrangere la barriera del numero di Dunbar, quella che fisserebbe a 150 persone il massimo possibile di una rete sociale. Ma, ai livelli più alti della società, non accenna a decadere l'importanza dei cenacoli, degli 'inner circle', delle confraternite. Con sedi in palazzi antichi, poltrone in cuoio un po' usurate, foresterie dove impera l'etichetta o, almeno, appuntamenti fissi in alberghi e ristoranti dal consolidato buon nome. Proliferano, anzi. Luoghi d'eccellenza di quello che oggi si chiama "capitalismo di relazioni".I circoli cosiddetti "sociali" sono i più esclusivi, origini spesso ottocentesche e albo dei soci denso di blasoni aristocratici. Sono 18 in Italia - quelli dell'Unione in varie città, gli Scacchi e la Caccia a Roma, il Clubino a Milano e il Whist a Torino, per citare i più noti - e hanno appena aggiornato il loro elitario annuario con una nuova adesione, quella del Teatro di Brescia. A Genova, il Tunnel si chiama "Circolo artistico", ha dovuto risolvere problemi di sede - si sta trasferendo in Palazzo Doria - ma si decidono comunque lì le cariche importanti di armatori e industriali cittadini. L'ingresso nei club milanesi è un'avventura pericolosa dove si guadagna prestigio ma ci si può anche scottare con imprevisti rifiuti. E nei circoli sportivi romani vengono calibrati gli assetti delle più importanti aziende di Stato, a partire dalla presidenza Rai, individuata nello spogliatoio dei Canottieri Roma, dove molto ha giovato la contiguità di armadietti fra Gianni Letta e Paolo Garimberti.
Il circolo come mutuo soccorso - I circoli sportivi della capitale fanno caso a sé. Concentrati sulla sponda del Tevere a monte della città hanno meritato un capitolo - 'L'oro dei circoli' - nel libro di Claudio Cerasa, 'La presa di Roma' (Rizzoli): «Non c'è stato politico che non si sia preoccupato di come gestire e di come possibilmente sfruttare, il potenziale che si nasconde dietro i circoli sportivi, e in modo particolare dell'Aniene».Con buona continuità fra Prima e Seconda Repubblica. Il cinema, in questo caso, è prova di verità. Col bozzetto di Andreotti - in 'Il Divo'di Sorrentino - quando analizza freddamente la situazione e non è l'accusa di mafiosità a preoccuparlo ma le cose minime: «Mi scoraggia che sono stato rimosso dalla presidenza dei circoli musicali». E con l'apoteosi dei circoli sportivi romani dipinta da Christian De Sica in 'Simpatici e antipatici' (dove Cesare Previti è incarnato alla perfezione da Gianfranco Funari).Dal suo osservatorio di Dagospia, Roberto D'Agostino commenta: «Cosa era rimasto al generone romano una volta preso il sopravvento dal punto di vista economico? Fare la parte del genero ricco che salva il palazzo patrizio. E diventare socio del circolo, accanto a quelli che hai salvato dalla rovina.Sono mutui soccorsi che funzionano benissimo».L'Antico Tiro a Volo - in cima ai Parioli - raccoglie un'alta percentuale di personalità del mondo giudiziario e delle Authority, fino alla Corte Costituzionale. Presieduto dall'avvocato Michele Anastasio Pugliese, conta fra i soci Domenico Fisichella, Antonio Catricalà, Luigi Mazzella, Franco Frattini, Lino Denise, Corrado Calabrò. Dice Salvatore Taverna, già cronista mondano del 'Messaggero', "il poeta della notte" come lo chiamava Fellini: «In estate si fa lì la più bella festa dei circoli. Molto tradizionale e molto elegante». Ai Canottieri Roma è stato presidente fino al 2008 Gianni Battistoni (ora il ruolo è coperto da Andrea Tinarelli, dirigente dell'Unicredit). È lì che venne girato il film di De Sica. Battistoni se n'è pentito - «Mi seccai molto, dopo. Perché prendeva in giro i Canottieri Lazio» - e ridimensiona il potere che si concentra nel circolo: «Certo, abbiamo soci importanti, ma l'amalgama resta lo sport. Magari il modello americano è dove si vorrebbe arrivare, col lobbismo, gli scambi di opportunità e i grandi accordi. Ma qui non ci si riesce perché subentra la goliardia e non è mai una cosa seria. E poi so per definizione che dagli amici non si ottiene mai niente. Noi siamo gemellati col New York Athletic Club: lì c'è la Hall of Fame, la lapide dei caduti per la patria, le giacche del club all'ingresso. Figuriamoci. Magari altrove...». Altrove significa Canottieri Aniene, col presidente Giovanni Malagò, detto anche maliziosamente Megalò. «Costa caro. Ma tanto te li rifai», si dice in giro riferendosi all'iscrizione. Malagò è in pista dopo un salutare massaggio alle nove di mattina, memore delle lezioni dell'avvocato Agnelli che lo trattava da proconsole nella capitale: «Le nostre regole? Come la Costituzione che recita "promuovere lo sport". Ridicolo pensare ad altre cose, a un centro alternativo alle situazioni esistenti di potere. C'è spirito sociale. Una cosa diversa dal lobbying. Nel senso che il socio medico ti indica dove andare a curarti se ne hai bisogno». Altre volte Malagò è meno decoubertiniano. Nel libro di Cerasa dichiara: «Da un lato ci sono le medaglie olimpiche... Dall'altro c'è tutto quello che riguarda la vita di imprenditori, manager, professionisti, banchieri, giornalisti e costruttori romani, il clima che si crea nella nostra struttura ha dato la possibilità di dar vita ad aggregazioni tra banche, di favorire molti accordi strategici per la città, di firmare alleanze tra imprenditori e di trovare importanti intese politiche. È successo spesso che soci illustri dell'Aniene abbiano concluso grandi affari nel nostro circolo, ma questo avviene in maniera non voluta. Diciamo pure casuale: qui si mangia, si gioca a tennis, si fuma un sigaro, si parla, non so, della Roma calcio, dell'Alitalia, scattano meccanismi di complicità, si risolvono i problemi e si concludono accordi». Col medesimo Malagò spesso coinvolto in prima persona (Air One, Technimont, Unicredit, Auditorium...). In effetti, il presidente ama raccontare le rivalità interne fra canottieri (Alberto Tripi, Enrico Vanzina) e runner (Matteo Montezemolo, Giampaolo Letta, Salvatore Rebecchini), ma ci sono anche nervosismi meno effimeri. Quelli di un socio da mezzo secolo, per esempio, Maurizio Clerici, già olimpionico di canottaggio: «Il problema è che all'Aniene prima si fanno affari e poi si pensa al resto. Quando ti trovi a pagare trentamila euro di tassa d'ingresso per far parte di questa lobby è come se tu entrassi in una grande società di azioni da cui, naturalmente, pretendi di ricavare qualcosa».Ricchezza e nobiltà - Se i circoli sportivi, sulla scia di quelli romani, sembrano badare al sodo di affari, cariche e alleanze, quelli sociali rimarcano la differenza di stile dilettandosi in amabili diaspore. Così a Torino l'antico club del Whist e Accademia Filarmonica - in piazza San Carlo, fondatore nel 1841 Camillo di Cavour - si divide in compagnie dai nomi birichini: i "mandrilli", i "farfalloni", i "gianduiotti", i "pompelmi" (nati come caricatura di un altro gruppo, i "mandarini", ma nel senso cinese). «I mandrilli erano i più brillanti. Ma ormai si sono estinti per ragioni anagrafiche», spiega il presidente Alessandro Sclopis di Saleano, precisando che al Whist non si è ostili ai sottogruppi all'interno del circolo, altre, semmai, sono le cose da evitare: «Ci uniscono le manifestazioni culturali. Chi parlasse di business sarebbe guardato di cattivissimo occhio». Del resto, qui non sono mai entrati - nè hanno fatto domanda - tanti nomi importanti della Torino industriale come Romiti, De Benedetti e, oggi, Marchionne. Apolitico e aconfessionale, l'aristocratico club registrò un terremoto nel dopoguerra, ovvero l'epurazione degli ufficiali che avevano giurato per Salò: «Perché non si giura due volte. E loro avevano già giurato per il Re».Vicende di corti e dinastie hanno turbato anche la vita dei due circoli romani più aristocratrici, la Caccia e gli Scacchi. Col primo nato liberaleggiante, nel 1870, visto che fece subito presidente onorario Umberto I suscitando l'ostilità della Segreteria di Stato in Vaticano. E il secondo che se ne separò come costola della nobiltà nera. Oggi le parti si sono invertite: la Caccia resta quasi esclusivamente nobiliare mentre gli Scacchi «si sono aperti al mondo moderno, cerchiamo l'aristocrazia dei tempi in cui viviamo: uomini di cultura, delle istituzioni, delle grandi cariche statali. Persone come Giulio Tremonti. È correttissimo, quando entro e lui è seduto a un tavolo si alza sempre: "Lei qui è il mio presidente"», spiega don Giulio Patrizi di Ripacandida, da nove anni presidente. Che ha comunque il suo daffare dentro Palazzo Rondanini, in via del Corso, ottava sede del Circolo dalla fondazione. Deve fronteggiare la concorrenza esterna - «Ora c'è la tendenza a frequentare l'Aniene che attira di più per il tipo di incontri, lì c'è un giro di uomini d'affari» - e, all'interno del circolo, i soci più legati al passato. Quelli che brontolano davanti alla decisione di aprire al secondo piano la "Sala dell'insalata ricca", un ambiente dedicato al lunch dove si possono accogliere ospiti, frequentato ogni giorno da una cinquantina di persone, soprattutto i membri più giovani. «La sala soci, al terzo piano, chiusa agli esterni, finiva per essere usata solo dai più anziani. Li, il cerimoniale è rigido anche se non scritto: non ci si alza se non si alza il presidente, e la sua sedia deve restare vuota; se poi lui non arriva e ci sono molti soci in attesa, il posto viene assegnato, se poi il presidente arriva, chi ha occupato la sua sedia deve offrire champagne a tutti». Al terzo piano, ora, si ritrova una decina di anziani signori che fanno un po' di fronda in vista delle prossime elezioni a novembre: «Capisco che si sentano un po' isolati. Ma io non posso ignorare i giovani che rappresentano l'avvenire del circolo per favorire l'esclusività». L'ispirazione britannica dei circoli cresce nell'Italia settentrionale. Discrezione e riservatezza sono parole d'ordine infrangibili alla Società del Giardino o al Clubino, a Milano. Fra i seicento soci del Clubino, dal 1901, si contano tutte le famiglie dell'alta borghesia milanese, assieme a una quota aristocratica che all'epoca fuggì dall'ingessatissima Unione in cerca di maggior vivacità. Ma resta in vigore l'avviso di Giovannino Sforza, presidente nei primi anni Ottanta: «Se pensate di venire qui per fare affari con i soci vi sbagliate di grosso». Così è cortesemente sconsigliato portarsi penna e carte da lavoro in sala da pranzo, come pure fa alzare molte sopracciglia lo squillo di un cellulare. Spiega l'odierno presidente, Gian Giacomo Attolico Trivulzio: «Qui è come si fosse in una casa privata. Circoli di questo tipo, va ricordato, non sono luoghi aperti al pubblico». Per evitare, poi, le consuetudini ristrette e la formazione di sottogruppi (scoraggiati, qui, a differenza di altrove), l'accesso ai tavoli è rigorosamente in ordine d'arrivo. E un'atmosfera non troppo distante (anche se minigruppi ci sono: barbieri, cafoni, baccalaioli...) si respira a Napoli, al Circolo del Remo e della Vela Italia che custodisce la passione marinaresca dell'alta borghesia partenopea: «È difficile si facciano affari, qui. Ci conosciamo tutti fra noi, da anni. È così che arrivano anche le otto, dieci nuove iscrizioni ogni anno», ragiona il vicepresidente Giuseppe "Picchio" Milone.
M'iscrivo anch'io? No, tu no - Il capitolo delle bocciature e delle esclusioni è il più delicato, spesso segreto. Fece scalpore, al Clubino di Milano, quella di Alessandro Benetton nel 2007 (pare che, anni prima, fosse andata male anche a Gianmarco Moratti): un terremoto, anche perché la proposta e la presentazione aveva coinvolto soci eminenti come Gerardo Braggiotti, Cario Bonomi e Gaddo della Gherardesca. Un altro Gherardesca, invece, era stato coinvolto nella lunga contesa che segnò l'ingresso di Roberto Gucci nell'assai aristocratica Unione di Firenze. I casati più illustri si schierarono da una parte o dall'altra. Contrari i fratelli Pucci, Emilio e Puccio: Gucci è un nome senza storia. E Guelfo della Gherardesca, dal campo avverso, gelò Emilio con una memorabile battuta: «Attento, nell'elenco del telefono ci sono un paio di pagine di Pucci. Di Gherardesca ci siamo solo io e mio fratello». Invece, davanti alla lunga anticamera subita per entrare al medesimo circolo, i Pontello, potenti costruttori, trovarono una risposta drastica: si fecero un club in proprio, il Florence (in anni pi recenti, poi, il veto è caduto).A Roma l'altrove trionfante Malagò non ebbe successo alla Caccia, mentre cadde sull'ingresso al circolo degli Scacchi Giovanni Maria Flick: lo sponsorizza un socio eminente come Leopoldo Elia ma i suoi trascorsi di ministro prodiano turbano qualche socio che aspetta il voto per impallinarlo. A Torino, i dirigenti del Whist e Accademia Filarmonica ammettono qualche rifiuto eccellente ma guai a fare nomi e cognomi. Non si va oltre un "comunque bisogna tornare agli anni Novanta", a riprova che funziona bene il meccanismo di filtro e verifica sull'accoglienza di chi già è iscritto.Stoppati a Napoli, al Circolo del Remo e della Vela Italia, Antonio D'Amato e Corrado Ferlaino, mentre è una leggenda metropolitana il no a Diego Della Valle: «È solo che la sua segretaria si informò sulle procedure poi non dette seguito all'iscrizione. Ma noi saremmo ben lieti di accoglierlo. E poi di mare si intende», precisa Milone.Ma l'esclusione più tormentata, in assoluto, è stata quella di Francesco Cossiga. Anche perché ha riguardato entrambi i circoli storici della capitale. Prima, il "picconatore" ci provò con la Caccia. Incontrò in Vaticano Giulio Sacchetti, il presidente, e gli espresse il desiderio di entrare nel Circolo. Sacchetti sondò gli umori dei soci e fece presente a Cossiga che c'era il passaggio non proprio scontato delle palle bianche o nere per l'accettazione. La risposta fu fulminante: «Ma io non ci penso neanche a essere votato. Mi deve nominare come fossi un principe reale». Ritirata sdegnata davanti all'impossibilità di stravolgere il regolamento. Qualche tempo dopo, il tentativo si ripeté con gli Scacchi. Qui, il sondaggio lo fece un socio, il Ragioniere dello Stato Andrea Monorchio. Ne parlò al presidente Patrizi e questo sentì l'umore dei soci. Cbe risultò tutt'altro che calorosamente propizio. Così, davanti al rischio di una bocciatura, anche la seconda candidatura si dissolse. I circoli itinerantiMa c'è un'altra faccia nella galassia dei circoli, anche questa ispirata ad abitudini anglosassoni, dove il piacere di stare insieme non è per forza legato alla consuetudine di un medesimo luogo, di un edificio dove si è riconosciuti all'ingresso dal portiere e dove sappiamo quale è la poltrona più comoda. Sono i cosiddetti circoli itineranti, dove i soci si incontrano a scadenze fisse e non sempre al solito posto, magari in alberghi, ristoranti, dimore storiche, altri club ospitali. Due esempi a Milano si inseguono fin dal nome. Sono gli Amici del giovedì e gli Amici del venerdì. I primi - presidente Giuseppe Diana - si riuniscono a scadenza bisettimanale, ora alla Società del Giardino dopo un lungo periodo al Savini. Impossibile accertare se, come annota qualcuno degli attuali soci, Silvio Berlusconi fosse fra i fondatori, assieme a Giuseppe Prisco e Mario Talamona. Dai sei o sette degli inizi, comunque, i soci oggi sono una quarantina. Fra loro banchieri come Corrado Passera e Pietro Gori, docenti come Enrico De Mita, avvocati come Enzo Paladino, industriali come Giordano Zucchi, Federico Falck, Mario Boselli, Gaetano Marzotto e Giuseppe Stefanel. Gian Galeazzo Biazzi Vergani, presidente dell'editoriale del "Giornale", è, invece, un Amico del venerdì: «Per le adesioni abbiamo due criteri: essere amici o buoni conoscenti di qualcuno che già è socio, e godere di un certo prestigio». Così figurano nel club, che anche questo si riunisce spesso alla Società del Giardino, Umberto Veronesi, Cesare Romiti, Riccardo Chailly, monsignor Buzzi (che ha preso il posto di Gianfranco Ravasi dopo averne ereditato l'incarico alla guida dell'Ambrosiana), Sergio Romano, Bruno Ermolli. L'ultima cooptazione è quella di Remo Cantoni. Nati nell'immediato dopoguerra, gli Amici non sono mai stati più di trenta, oggi sono una ventina. Si ritrovano l'ultimo venerdì del mese, uno dei membri invita e poi tiene una relazione. In febbraio, l'appuntamento si è tenuto all'Ambrosiana invitati da monsignor Buzzi che ha poi parlato di Leonardo da Vinci. C'è un aspetto in cui questo club non differisce dai circoli sociali: «Invitare signore non è proibito ma, quando tentai di farle accettare come socie, la proposta venne bocciata a maggioranza», ricorda Biazzi Vergani. La genesi del Bagatto, è un po' diversa, costruita sull'unione di amici e persone professionalmente ancora in via di affermazione. Il Bagatto è il gruppo di un centinaio di soci, torinesi per tre quarti e il resto milanesi: «È nato 27 anni fa. La matrice sono gli allievi di due-tre scuole superiori torinesi, poi laureati in giurisprudenza e in economia che condividono una visione del mondo moderata. Ma non c'è l'idea di riprofilare una sorta di camera delle corporazioni. È un'occasione di ritrovo seria per scambiarsi esperienze professionali», spiega il presidente Giulio Bencini, consulente finanziario: «Ci ritroviamo un paio di volte al mese a Villa Rey, anche se per l'ultima riunione ci siamo spostati a Venaria. E quando l'incontro si tiene a Milano ci appoggiamo al Manfredo Camperio Club». A Roma, un'idea del genere si declina nel Cenacolo, creato dal giornalista Marco Antonellis, cinque anni fa, con un gruppetto di colleghi. Oggi raduna una trentina di persone che si ritrovano una volta al mese nella sala riservata di un ristorante (al Bagutta, l'ultima volta) spesso ospitando personalità con cui discutere in libertà. Dal Cenacolo sono passati Pippo Corigliano dell'Opus Dei, Giancario Elia Valori, monsignor Paglia e Gianni Letta, nonché - col massimo della riservatezza - a quanto pare anche Cesare Geronzi. Nel club dei circoli, infine, non si possono trascurare quelli degli ex alumni, che rammentano la tradizione delle confraternities e delle sororities nelle università americane, quando non sono a quelle direttamente collegate. Gli ex bocconiani tengono un incontro al mese, accompagnato da colazioni di lavoro la mattina presto. Gli ex McKinsey riuniscono 3-400 persone (ci capitano Corrado Passera e Vittorio Colao) una volta l'anno, una settimana prima di Natale. Alla Normale di Pisa come al Cesare Alfieri di Firenze si cerca di ravvivare la tradizione. A Pisa, spostando in giugno l'assemblea annuale e riallacciando i contatti con gli ex allievi. A Firenze, ripartendo da capo, visto che i reduci oggi sono uniti soltanto dalla cravatta apposta disegnata da Pucci. Un esempio che funziona sono gli ex alunni di giurisprudenza a Milano, giunti al 15° anniversario, 3-4 eventi l'anno, una cinquantina di persone al Jolly President per l'happy hour Francesco Abbozzo Franzi, presidente uscente, spiega: «Non siamo un club monoprofessionale. Da quella facoltà escono persone che si avviano in ambiti diversi: avvocati, notai, giornalisti, banchieri d'impresa. Così questo è un network di persone che hanno in comune l'attenzione al diritto. Poi, io ho lavorato perché ci si potesse incontrare qui anche fra laureati di ieri e signori coi capelli bianchi». Scambi di opportunità?: «Mi viene in mente un caso. Avevamo deciso di dare un contributo a studenti per un corso di tre settimane in Cina. L'abbiamo annunciato sulla newsletter e ci ha risposto un socio, Marco Leporati, rappresentante a Shanghai della Savino Del Bene. Ci ha aiutato a organizzare lì una riunione con i dirigenti della Camera di Commercio italocinese».

giovedì 8 aprile 2010

Bossi, la chiesa e il sogno non realizzato del Pd

Il modo in cui si sta comportando la Lega nord, e soprattutto le due sfere di influenza su cui fa perno il percorso del carraccio, offrono uno spunto di riflessione secondo me interessante. Si può pensare ciò che ci vuole del partito di Bossi ma il fatto che i leghisti abbiano puntato, a volte anche con successo, a conquistare due elettorati diversi come quello post democristiano e post comunista – che in molti partiti (vedi alla voce Pd) non riescono a stare insieme con grande agilità – segnala che se si guarda con attenzione il primo vero esperimento non troppo conflittuale di compromesso storico realizzato non nelle sedi e negli organigrammi dei partiti ma bensì sul territorio rischia di essere proprio quello della Lega.

Altri link

Il Cav., Bossi e l'ultima bufala sulla Lega

La Lega, i comunisti e il Pd

"La Lega è la nuova democrazia cristiana"


venerdì 2 aprile 2010

I disastri del Pd spiegati dai disastri di Roma

Il Lazio è ancora una volta l’emblema dei problemi che tormentano il centrosinistra italiano. La vittoria di Renata Polverini porta con sé una serie di fenomeni di cui ho già parlato qui nel mio libro ma che può essere utile tornare a spiegare. Prima cosa. La sinistra (perché il Pd è quello ormai: il centrosinistra è un sostantivo che dovrebbe iniziare a sparire dal lessico della politica del partito di Bersani) ha perso come sempre nelle zone periferiche (Latina, Frosinone, Rieti, Viterbo; la stessa cosa successe due anni fa a Roma con le borgate: tutte ad Alemanno): laddove fare un’iniziativa politica non ti permetterà certo di avere tanti titoloni sui giornali ma garantisce di dimostrare al cittadino che non ti interessa soltanto avere il tuo faccione sparato nelle aperture dei telegiornali. Il centrosinistra, ancora una volta, ha creduto di essere, non si capisce per quale ragione, geneticamente superiore, dimenticandosi però che da qualche anno a questa parte nella regione in cui è nato il Partito democratico (il Lazio, appunto) non solo non esiste un partito, un coordinamento, un pivot attorno cui rifar girare il motore ingolfato della macchina del partito ma non è stato neppure ancora avvistato un solo segno di ripresa dalla sconfitta elettorale del 2008. Dopo la presa di Roma di Alemanno sarebbe stato naturale aspettarsi che il centrosinistra romano sarebbe rinato attorno a questa o a quella figura. Che avrebbe trovato la forza di costruire non dico un’alternativa ad Alemanno (tanto quella c’è: Zingaretti nel 2013) ma una nuova classe dirigente capace di fare politica e di non precipitare nell’irrilevanza totale. Non è successo, e oggi il Partito democratico sembra una macchina con un motore che gira solo per forza di inerzia ma che a guardarla bene gli manca una cosa: il pilota.

(1. continua)

giovedì 25 marzo 2010

Bersani, Berlusconi e le tasse da abbassare

Trovo formidabile il Bersani che rimprovera Berlusconi per aver alzato le tasse. Considero, politicamente parlando, il non aver mai abbassato le tasse la più grande delusione del Berlusconi governante. Ma criticare il non aver abbassato mai le tasse dovrebbe equivalere a una richiesta di abbassarle le tasse. Bersani questo non lo dice mai e secondo me perde da tempo un’occasione buona per mettere sul piatto un bel tema su cui una volta tanto farsi inseguire dal centrodestra, e non il contrario come invece avviene un po’ troppo spesso.

giovedì 18 marzo 2010

Quel geniaccio di Gianni Letta

Le, ehm, devastanti intercettazioni a carico del signor Gianni Letta – sempre nell'ambito del giornalismo del "lei non è indagato, ci mancherebbe, ma la sua voce è stata pescata all'interno di un'inchiesta e quindi, sì, non c'è nulla di penalmente rilevante ma era importante che i nostri lettori sapessero come stanno le cose" – comprendono frasi schiaccianti tipo questa. "Proverò a cercarlo, grazie, ciao".

lunedì 15 marzo 2010

Chi è l’uomo da cui è nato il casino delle liste

Chi è l’uomo da cui è nato il casino delle liste

Dietro al gran pasticcio delle liste del Popolo della libertà romano c’è un volto che forse in giro per l’Italia non dirà molto ma chi conosce un pochino Roma sa come invece sia diventato piuttosto famoso da queste parti negli ultimi anni. Tra i nomi che Milioni – quello del “me stavo solo a magnà un panino” – avrebbe improvvisamente cancellato nei minuti successivi all’arrivo al tribunale di Roma c’è lui: Samuele Piccolo. E’ un ragazzo di 29 anni dalla storia un po’ misteriosa di cui parlo in un capitolo del mio libro(La presa di Roma). Ecco qui il paragrafo che gli dedico.

Nel corso degli ultimi anni c’è un nome un po’ misterioso che rappresenta il più spregiudicato terminale offensivo dei rapporti tra Alemanno e alcune espressioni ecclesiali romane. Tra le decine di migliaia di manifesti che rivestirono per giorni e giorni i muri della Capitale, nella primavera del 2006 comparve in modo improvviso il nome di un politico di Alleanza nazionale di cui alcuni tra gli stessi militanti di An ignoravano persino l’esistenza: Samuele Piccolo. All’inizio il suo volto sorridente campeggiava solo con il nome, il cognome e il sito web; poi anche con il simbolo del partito con cui si sarebbe presentato. Se l’obiettivo dell’oscuro candidato era quello di incuriosire i suoi elettori, colse nel segno. Ci si chiedeva: chi è questo Piccolo? Chi lo appoggia? Da dove viene? Quanti anni ha? La sua performance sarà strepitosa, ma nulla a che vedere con il successo di due anni dopo. Alle amministrative del 2008 risulterà essere il politico più votato in consiglio comunale (con 11.996 preferenze, seimila in più rispetto a quelle messe insieme nel 2006), superando di quattromila voti il secondo (ovvero Davide Boroni, 8332 preferenze) e ricevendo la nomina di vicepresidente del consiglio comunale e quella di responsabile alla Sicurezza. La macchina elettorale di Samuele Piccolo è molto organizzata: sia nel 2006 sia nel 2008 l’esponente di Alleanza nazionale ha dato vita a un comitato formato da centotrenta persone capace di affiggere migliaia di manifesti ogni notte, di distribuire alle fermate della metro centinaia di opuscoli con la storia della sua vita, di avere propri punti di riferimento diretti all’interno di moltissimi seggi romani, di portare diecimila persone in uno stadio della Capitale (il Palacavicchi: è successo nel corso di una manifestazione organizzata nell’aprile del 2006). Nel suo momento di massimo potere in consiglio comunale – e subito dopo aver formato una corrente ufficiale nel PdL romano (il Movimento popolare) – Piccolo, alla fine del 2008, ha attraversato una fase di forte tensione con il sindaco che, a seguito delle sue critiche per la gestione dell’Ama, gli ha ritirato la delega alla Sicurezza. Il bisticcio si è risolto qualche mese più tardi quando Alemanno ha offerto garanzie per il futuro a Piccolo (voleva un assessorato e non è escluso che al prossimo rimpasto lo ottenga) e quando il giovane consigliere ha accettato senza protestare un’altra delega: la promozione economica delle periferie. Il riappacificamento tra Piccolo e Alemanno è avvenuto però in coincidenza con un fatto preciso, ovvero l’assegnazione della selezione delle 544 persone che l’Ama avrebbe dovuto assumere a tempo indeterminato, a partire da metà maggio 2009, a una società di nome Centro Elis. L’associazione Centro Elis è famosa a Roma per la sua esperienza nel campo della formazione e della gestione delle risorse umane, ed è direttamente legata a un’istituzione fondata nel 1928 da san Josemaría Escrivá, alla quale Samuele Piccolo non ha mai smentito di essere vicino: l’Opus Dei. Tuttavia, la storia di Piccolo costituisce ancora oggi un mistero della politica romana: su di lui esiste un numero scarsissimo di informazioni, ma investigando un po’ qualcosa alla fine si scopre. Piccolo non ha mai fatto parte di alcuna corrente di Alleanza nazionale, non ha mai militato in alcun movimento giovanile (né di destra né di sinistra), professionalmente si occupa di marketing, è a capo del personale di un’azienda di consulenza romana (La Romanina Srl), è stato nominato cavaliere dall’ambasciata somala presso la Santa Sede, «per i meriti legati al suo impegno in ambito sociale», e gestisce con il fratello Massimiliano una casa editrice, Terzo millennio, che si occupa della diffusione della cultura popolare e di libri dedicati agli anziani. Inoltre, Piccolo dà ogni anno un sostanziale contributo per realizzare una festa molto famosa in collaborazione con il Vicariato e più volte patrocinata dall’attore Lino Banfi. Si tratta della Festa dei nonni. Sui nonni, infine, Samuele ha scritto anche un libro, edito dalla casa editrice di cui è proprietario, il cui titolo è, manco a dirlo, Nonni. «Tutto questo però non basta a spiegare la sua incredibile performance elettorale» racconta il consigliere provinciale e tesoriere del Pd alla Provincia di Roma Marco Palumbo. «Non basta il profilo della sua biografia, non basta la sua solidarietà con il mondo degli anziani, non basta il suo ambizioso programma elettorale (sgombero dei campi nomadi irregolari, riordino di quelli a norma di legge, agevolazioni
per le aziende che si spostano in periferia). E non basta anche perché Piccolo è nato il primo luglio del 1981, e ciò significa che alle elezioni del 2008 aveva appena ventisette anni e, con tutta la buona volontà, un simile potere non si costruisce dal nulla.»

 

venerdì 15 gennaio 2010

La Presa di Roma sulla Stampa/ 3

La Presa di Roma sulla Stampa/3

Augello, lo stratega che dopo Roma prova a conquistare il Lazio

Il problema, disse Andrea Augello, fu di esaltare in Gianni Alemanno le qualità che facessero gola agli elettori moderati in prestito alla sinistra. «Lo abbiamo fatto così bene, che alla fine abbiamo preso voti di sinistra, di sinistra vera».

Oggi si discute ancora su quanto abbia inciso il lavoro di Augello nella presa di Roma. Quanto gli deve Alemanno? E quanto gli deve per la sconfitta di due anni prima, quando rivinse Walter Veltroni al termine di una campagna elettorale cui Augello si era rifiutato di prendere parte? Lui, Augello, oggi la risolve così: «Nel 2006 Alemanno non ha perso perché non c’ero io, ma non c’ero io perché Alemanno avrebbe perso». In ogni caso, se ne discute ancora perché nel centrodestra, con fantasia traballante, c’è chi dice che Augello è come quel mister Wolf di Pulp Fiction, uno che arriva quando c’è un guaio da risolvere.

E se ne discute per pronosticare quanti voti di sinistra, di sinistra vera, sarà capace di portare a Renata Polverini. Una che, sull’altra sponda, gode già di qualche simpatia. Andrea Augello è nato nel 1961 e con Claudio Velardi, Fabio Rampelli e Beatrice Lorenzin è nella squadra che deve portare la Polverini nella stanza di governatore del Lazio che fu di Piero Marrazzo. Di Velardi si sa tutto. Ex comunista, ex Pds, ex Ds. Era uno dei Lothar di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi ed è considerato un estroso della comunicazione. Fabio Rampelli, come Augello, è un ex del Movimento sociale. Inutile riparlare degli anni delle botte in piazza eccetera. Oggi si sintetizza così: Augello ha saputo rimettere alla stessa tavola il partito e la borghesia romana, che per decenni aveva avuto imbarazzo, se non schifo, a fare comunella coi neri.

E la faceva coi rossi o i bianchi. Rampelli ha saputo rimettere alla stessa tavola la borghesia e il popolo. Quanto a Beatrice Lorenzin, lei ha tutta un’altra storia. E’ nata a San Camillo, Roma, trentotto anni fa. Ha fatto sempre politica in Forza Italia e nel ‘99, quand’era ragazzina, Silvio Berlusconi la fece coordinatore regionale. I risultati sono arrivati. Lei è una che conosce le periferie, Ostia e Acilia, soprattutto, e alle Politiche del 2006 si vide il risultato perché lì, in alcune delle borgate rosse, Forza Italia divenne il primo partito. Di tutti questi, Augello è però il più interessante. E’ un esempio perfetto di quella destra nuova, venuta su negli anni Ottanta, e che uscì dalle catacombe cominciando col cambiarsi la camicia.

In una cronaca del ‘93, è una destra descritta così: «Quasi tutti vestono come i compagni di un tempo, maglioni, pantaloni a tubo, qualcuno coi capelli lunghi, scarpe Clark, c’è persino una borsa di Tolfa». Nella Presa di Roma, libro di Claudio Cerasa, il ritratto di Augello è questo: «E’ sempre stato l’espressione di quella destra considerata un po’ pariola, un po’ chic, senza più pantaloni stretti e anfibi neri ma con Fred Perry e New Balance». E cioè: «Quei militanti in giacca e cravatta che da diciottenni, invece che sognare la rivoluzione, sognavano di fare i deputati». E però raccontano che un giorno si prese male con Maurizio Gasparri, fra i due cominciò una discussione aspra, e Augello, che è ben più grosso, prese Gasparri e gli infilò la testa in una pozzanghera; che sia storia vera o una balla conta poco: che la si racconti dice molto della fama di Augello.

Che, adesso, ha quella dell’erede di Goffredo Bettini, per delicatezza del tratto e capacità di stare nel mondo, ma poi è uno che ha amicizie (così si dice) fra i tassinari più incattiviti. Che nasce nella tradizione della destra sociale, e quindi non stupisce se stringe sodalizio con Anna Finocchiaro del Pd, ex comunista, insieme con la quale presenta un libro sulla strage dimenticata di Gela, anno 1943. Tesi del libro: fu tutta colpa degli americani. E insomma, si va a finire lì. Metti assieme uno come Velardi, una di strada come la Lorenzin, uno come Rampelli, li fai coordinare da Augello e viene in mente che nel Lazio, Alemanno più Polverini, la somma fa Fini. La Lorenzin dice che è banale: «Sarebbe tutto vero soltanto se noi fossimo il Pd, dove ci si combatte tra fazioni».

Augello ricorda che «nella storia del centrodestra, Fini ha la fiche di Roma almeno dal 1993». Tutta la classe dirigente (Silvano Moffa, Francesco Storace, Alemanno) è stata roba sua. Aggiunge che «se conquistassimo la Regione, la vittoria di Roma uscirebbe dalla categoria di episodio e prenderebbe la forma di una nascente polarità del centrodestra». Cioè un modo di fare governo. Un modo nuovo. Ma lì in mezzo qualcuno dice: con un potere simile, Fini si sentirebbe etologicamente più rassicurato, e forse non ne avrebbe tutte le ragioni.

Mattia Feltri
15/01/2010

domenica 10 gennaio 2010

La Presa di Roma sulla Stampa/2

8/1/2010 -
D'Alema e Alemanno biografie parallele
MARCELLO SORGI
La lettura incrociata di due libri usciti di recente rivela come i meccanismi della presa del potere, non solo si assomiglino, ma prescindano in gran parte dalla natura e dall'orientamento politico (destra o sinistra) di chi prende lo scettro. Claudio Cerasa, giornalista del Foglio (La presa di Roma, Bur futuro passato, euro 9,80), e Alessandra Sardoni, giornalista de La 7 (Il fantasma del leader, Marsilio Tempi, euro 16,50) analizzano rispettivamente la sorprendente ascesa al Campidoglio di Gianni Alemanno, il primo sindaco di destra della Capitale dopo quindici anni di dominio ininterrotto della sinistra, e l’incolmabile vuoto di leadership del Pds-Ds-Pd, dopo la fine del partito-chiesa comunista. 

I due protagonisti, avversari nella vita politica di tutti i giorni, hanno in comune alcuni aspetti delle loro (diversissime) biografie: rappresentano, nei loro partiti, due figure fortemente identitarie, la «destra sociale» Alemanno e i post-comunisti D’Alema. Nei Palazzi che occupano o hanno occupato (il Campidoglio e Palazzo Chigi), sono arrivati a sorpresa: Alemanno non era affatto dato per vincente nella primavera del 2008, quando Rutelli tentò per la terza volta di tornare a fare il sindaco di Roma. E D'Alema fu addirittura accusato di aver ordito un complotto, per scalzare Prodi e arrivare alla presidenza del consiglio sulla base di un nuovo ribaltone e senza un passaggio elettorale. 

Forse dipende anche da questo - dalla necessità, cioè, di stabilizzarsi, dopo le tumultuose arrampicate che li hanno portati in sella - l’uso di regole o di tecniche di potere abbastanza simili. Prima di tutto, l’occupazione di territori inesplorati o abbandonati dai loro predecessori: per Alemanno, la periferia e le borgate una volta polmoni di consenso della sinistra, poi abbandonate in omaggio alla politica di Veltroni fatta di eventi (Festa del cinema, Notti bianche) e ambientata, per forza di cose, sullo scenario spettacolare del centro della Capitale. Quanto a D’Alema, la famosa visita a Cologno Monzese nella sede storica di Canale 5, quando il futuro primo premier post-comunista riconobbe che la tv commerciale era una delle maggiori industrie culturali del Paese. 

Seconda regola, l’uso di «issues» e tematiche inusuali o eretiche rispetto alle proprie culture di provenienza: per Alemanno il «sociale» spinto fino ai limiti del corteggiamento dell’elettorato sottoproletario più tradizionalmente vicino alla sinistra radicale. E per D’Alema la tecnocrazia, frequentata in tutte le sue espressioni pubbliche e private, dai manager privati agli alti gradi delle forze armate, con l’aggiunta di un distacco polemico e progressivo dai sindacati. Infine, terza e regina delle regole, il trasversalismo: per Alemanno l’apertura ai dalemiani, nemici dichiarati di Veltroni nel Pd, e per D’Alema il braccio teso a Berlusconi, obiettivo pregiudiziale di Prodi e Veltroni. Cioè, in altre parole, la consapevolezza che gli avversari e le alternative esistono solo in campagna elettorale. E il giorno dopo che hai vinto, una parte degli sconfitti è già pronta a far patti con te. 

Autore: Claudio Cerasa
Titolo: La presa di Roma
Edizioni: Bur
Pagine: 300 
Prezzo: 9,80

Autore: Alessandra Sardoni
Titolo: Il fantasma del leader
Edizioni: Marsilio
Pagine: 335 
Prezzo: 16,50

La Presa di Roma sull'Unità

Le mani sulla Capitale: luci e ombre sulla vittoria della destra

di Maria Grazia Gerina

Tutto inizia con l’immagine di una città che in una notte trascolora dal rosso al nero. E una scena di grande suggestione: Alemanno da pochi minuti è il primo sindaco missino della capitale, si affaccia a festeggiare vittoria dal balcone sul Campidoglio. E sussurra: «Presa». Alla città che per quindici anni è stata laboratorio e vetrina del centrosinistra, dell’Ulivo, del Pd. Ecco, l’«inizio» è questo, in technicolor. Il resto delle 208 pagine scritte da Claudio Cerasa per raccontare ancora a caldo La presa di Roma (pagine 300, euro 9,80, Bur Biblioteca Universale Rizzoli, collana Futuropassato) servono a riavvolgere il film, ad andare dietro le quinte. A mettere in fila le domande giuste: «Chi comanda quando la Capitale cambia colore? Che volto hanno i nuovi padroni? Dove si nascondono i veri poteri?». Per capire come si sia costruita una vittoria. Impensabile fino a pochi mesi prima. E già diventata un caso da manuale. Se davvero - come confida lo spin-doctor di Alemanno, Umberto Croppi all’autore - persino l’ambasciata Usa ha chiesto infformazioni sulla campagna elettorale di Alemanno per farne oggetto di studio. Il RAGAZZO DEL FRONTE 28 aprile 2008, Gianni Alemanno, l’intemperante ragazzo del Fronte che amava i campi Hobbit, il genero di Pino Rauti, il custode dei «valori della destra» capace di tenere testa anche a Fini, in An prima e nel Pdl poi, diventa sindaco di Roma con 200mila voti in più di Francesco Rutelli, scelto dal centrosinistra come estremo baluardo di tre lustri di governo. Il cuore del libro è proprio la storia di quei 200mila voti. Duecentomila voti conquistati da Alemanno che - ricorda l’autore - sono soprattutto duecentomila voti persi da Rutelli rispetto alle precedenti vittorie del centrosinistra, visto che il perdente Tajani nel 2001 aveva ottenuto 746mila voti contro i 783mila voti del vincente Alemanno. IL CAVALLO SBAGLIATO La scelta del «cavallo» sbagliato, la fine di un ciclo, la rottura di equilibri che per quindici anni avevano consentito al centrosinistra di governare... Soprattutto - è il capitolo più interessante del libro - la perdita di contatto con i bisogni delle periferie. Viste dal centrosinistra le ragioni della sconfitta possono essere tante. Ma non c’è dubbio che l’asso nella manica dei nuovi conquistatori sia stato soprattutto uno: la capacità di cavalcare un tema che a Roma fino a due anni prima non veniva preso in considerazione. Qualcosa di impalpabile come la promessa della sicurezza. Nel capitolo «La vittoria della paura», Cerasa la ripercorre fotogramma per fotogramma. Dall’uccisione di Giovanna Reggiani, appena scesa dalla stazione di Tor di Quinto, allo stupro di una ragazza del Lesotho, vicino alla stazione de La Storta, a dodici giorni dal ballottaggio. «Quella sera, alle ventuno e due minuti, di fronte alla stazione della Storta - a dodici chilometri dal Colosseo e quindici minuti dallo Stadio Olimpico - due rumeni si avvicinarono a una ragazza sudafricana… La campagna elettorale si decise in quella malandata stazione ferroviaria: lo stupro della ragazza sudafricana diventò il soffio di vento con cui il centrodestra provò definitivamente a invertire la rotta politica della città», scrive Claudio Cerasa. E pazienza se il suo «salvatore», l’angelo della Storta, testimonial del patto per la legalità siglato da Alemanno nella redazione del quotidiano di Francesco Gaetano Caltagirone, era in realtà - si scoprì - un personaggio tutt’altro che angelico, con tanto di precedenti penali. Molto più di queste piccole sbavature a scoprire il gioco di cartapesta messo in piedi dalla destra nella campagna elettorale del 2008 è un sondaggio datato marzo 2009. Il sondaggio, curato dall’Eures, registra che il 50,1% dei romani lontano dal sentirsi finalmente protetto si sente invece più insicuro, che il 50,5% non ha notato cambiamenti di rilievo e che solo il 4,5% si sente più protetto. Se la sorprendente vittoria del centrodestra a Roma è stata soprattutto «La vittoria della paura», quel consenso costruito proiettando sulla città eterna l’ombra di un crimine. ROMA mgerina@unita.it

4 gennaio 2010

La Presa di Roma sul Giornale

Fini, Casini, D'Alema: la triade che punta a far fuori Silvio

I centristi vanno a sinistra dove i candidati sono dalemiani e a destra dove corrono gli ex aennini
È da giugno che se ne parla, sottovoce. Qualcuno ha cominciato a dire, a scrivere qua e là di questo strano gioco di sponda. Il buono, il bello e il cattivo. Fini, Casini e D’Alema. Tutti e tre a cercarsi, inciuciarsi, sottocoperta, nei crocicchi di qualche fondazione, ai convegni a porte chiuse dove siedono solo i migliori, all’ombra delle banche e nel cuore di Roma. Erano i tempi in cui D’Alema faceva il rabdomante e davanti a Lucia Annunciata profetizzava serio: è in arrivo una scossa. Quale? Mistero. Forse le escort, forse Spatuzza. Nessuno sapeva, ma loro già immaginavano. Tutti e tre comunque erano convinti che per il berlusconismo stesse suonando l’ultima campana. Bisognava pensare al dopo e intanto lavorare per l’ultima spallata.
È da qui che nasce il triumvirato di quelli che pensano al futuro. Un futuro a tre: Fini a destra, D’Alema a sinistra, Casini al centro e tutti gli altri in fuorigioco. Questo doveva essere l’assetto tripolare della Terza Repubblica. Il tre, in fondo, è un numero magico. Un blog politico, tre giorni prima di quella scossa annunciata, aveva trovato per loro anche un nome classicheggiante: gli ottimati. Come i senatori nemici di Cesare, come Catone e Metello Scipione, come Bruto e Cassio, come i boni viri, gli uomini buoni, i migliori, quelli che vogliono restaurare i costumi dell’antica repubblica. Doveva essere la rivincita dei politici di professione. Tutti e tre con una solida storia da Prima Repubblica alle spalle.
Non tutto è andato come gli «ottimati» speravano. Berlusconi è sopravvissuto alle scosse, le parole di Spatuzza sono rimbombate nel vuoto, l’aggressione al Duomo ha smorzato per un po’ la voglia di cavaliericidio e quello che è rimasto della buona alleanza è un patto, un triangolo asimmetrico, per le elezioni regionali. Il famoso doppio forno di Casini. L’Udc con chi va? Semplice, con Fini e D’Alema. Nei territori dove Fini è riuscito a strappare un suo candidato, Scopelliti in Calabria e Polverini nel Lazio, Pier Ferdinando sta con lui. Dove spuntano i dalemiani, come in Piemonte con la Bresso e magari in Puglia, Casini volge lo sguardo a sinistra. Il resto verrà dopo. L’importante è mettere su qualche roccaforte dove sperimentare il futuro. Non è la Terza Repubblica, ma è meglio di niente.
È chiaro che le ragioni non sono solo politiche. Ci sono anche gli affari in questa storia. Ne è convinto uno che il triumvirato sta cercando di spazzare via. Vendola è convinto che il veto contro di lui abbia a che fare con l’acqua: «Abbiamo toccato interessi forti. Il no all’operazione Acquedotto Pugliese ha scontentato importanti gruppi nazionali, come quello che fa capo a Caltagirone». Roma è la chiave del patto. Claudio Cerasa, giornalista del Foglio, racconta nel pamphlet-inchiesta La presa di Roma le origini del partito trasversale degli ottimati. E il ruolo di Caltagirone è centrale. È il suocero di Casini. È lui che ha permesso a D’Alema di develtronizzare la Città Eterna. È alleato di Alemanno, che non ha gradito la scelta della Polverini, ma per ora si sta limitando a giocare una partita a scacchi con Fini, con cui non è socio ma neppure nemico. Gianfranco sta cercando di portarlo dalla sua parte, anche se il sindaco di Roma nicchia. Non lo convince la linea laicista dell’ex leader di An e neppure è pronto a sposare le sue avventure politiche. Ma non chiude la porta.
Il modello da esportare in Puglia e in altre regioni è quello dell’Acea, la vera cassaforte di Roma. Racconta Cerasa: «L’Acea è il laboratorio della grande intesa bipartisan. L’azienda è controllata al 51 per cento dal Comune di Roma e ha come azionista di riferimento la famiglia Caltagirone. A metà aprile del 2009 il candidato ufficiale del Pd al consiglio di amministrazione fu bruciato. Al suo posto fu scelto un dalemiano di ferro come Andrea Peruzy, tesoriere della fondazione Italianieuropei». D’Alema a Roma sta cancellando Veltroni e lo sta facendo con l’aiuto del suocero di Casini e degli ex An. Fini a giugno si è inserito nella partita. La prima mossa ha già scontentato una parte dei suoi alleati. Alemanno e Caltagirone volevano Augello, lui ha imposto la Polverini. La Terza Repubblica che sognano gli ottimati è ancora molto lontana. Tutti nel frattempo hanno capito una cosa: la strada per arrivarci passa per le riforme, e per farle c’è bisogno di Berlusconi. Il gioco di prestigio di far finta che il Cav non esista, a quanto pare, non funziona.
Vittorio Macioce
7/1/10