lunedì 11 ottobre 2010

Il punto di oggi (su Afghanistan, Cav. e Bersani)

Comprensibilmente, i giornali di oggi si concentrano sulle conseguenze politiche dell’ennesimo attacco mortale registrato in Afghanistan tra le truppe dei nostri soldati. La questione di fondo di cui si discute in questi giorni, e che ha posto due giorni fa il ministro Ignazio La Russa, è se sia sensato oppure no dotare di bombe i nostri caccia Amx e di missili i nostri aerei senza pilota (i così detti Predator). Se ne discuterà nei prossimi giorni in Parlamento ma intanto, nonostante alcune posizioni populiste alla Luca Zaia e alla Ignazio Marino, trovo significativo notare che da quando non ci sono i vari Diliberto, Rizzo, Ferrero e tutti gli altri si riesce a discutere di guerra senza sentirsi rimbombare nell’orecchio l’eco delle 10, 100, 1000 Nassyria. Nel senso che è giusto riflettere sulla nostra presenza in territorio afgano – e qui, come avrete capito, iniziamo ad avere dei dubbi – ma è altrettanto importante, in questi casi, poter constatare che in Parlamento non c’è (quasi) nessuno che abbia voglia di speculare politicamente sulla morte dei nostri soldati.

Qui il resto del post

sabato 9 ottobre 2010

Inizia la corsa di Maurizio Cevenini, alè

Come scriviamo da tempo da queste parti, oggi pomeriggio è iniziata la corsa di Maurizio Cevenini. Detto il Cev. Ci sarà da divertirsi a Bologna. Qui l'articolo pubblicato una settimana fa sul Foglio.

Qui il post

venerdì 8 ottobre 2010

Feltri, Porro, Sallusti e la ricerca della ciccia

Ho letto tutto quello che c’era da leggere sul caso Feltri, il caso Sallusti, il caso Porro e il caso Giornale e, a prima vista, credo che stavolta i magistrati stiano davvero rischiando di fare una figura non proprio fantastica. In nessuna delle intercettazioni pubblicate stamattina sui giornali vi è, secondo me, la minima traccia di una possibile e concreta minaccia alla Marcegaglia. C’è questo messaggino inviato da Porro al portavoce della Marcegaglia (quello famoso in cui Porro dice di voler mandare i segugi a Mantova, città natale del presidente della Confindustria) ma da qui a dire che quel messaggino possa essere interpretato come una minaccia di chissà che cosa contro la presidentessa mi sembra davvero eccessivo.

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Claudio Cerasa su Twitter

giovedì 7 ottobre 2010

Cosa succederà alle prossime elezioni

Al momento, a proposito di elezioni, l’unica cosa certa è che la prossima primavera si voterà in parecchi importanti comuni sparpagliati qua e là in giro per l’Italia. Per esempio, a Torino, a Bologna, a Napoli, a Salerno, a Siena e a Milano. Bene. Proviamo a fare rapidamente il punto di quello che sta succedendo in queste città partendo dal partito che prima degli altri, per via delle primarie (che dio le benedica), dovrà scoprire le carte e far capire le intenzioni che avrà: il Pd.
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mercoledì 6 ottobre 2010

Il punto di oggi (su Fini, Bossi e il terzo polo)

La notizia del giorno riguarda naturalmente la nascita del partito di Gianfranco Fini. Ieri il presidente (e chi lo sa fino a quanto ancora) della Camera ha convocato i giornalisti a Roma per lanciare ufficialmente la sua creatura politica. Il nome del partito (o del movimento, come suggerito ieri da Campi) non è ancora certo (vi prego, ditemi che “finiani per il futuro” è solo uno scherzo) mentre invece sono ormai certi gli organigrammi (con Urso coordinatore).

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martedì 5 ottobre 2010

Gira un mezzo Berlusca di sinistra

Si chiama Maurizio Cevenini, sarà (probabilmente) il prossimo sindaco di Bologna.

A Bologna, oggi, Cevenini è semplicemente l’uomo del momento: i giornali parlano di lui, i bolognesi parlano di lui, le televisioni parlano di lui, al comune parlano di lui, allo stadio parlano di lui, nelle edicole chiedono di lui. E si parla di lui non soltanto perché Cevenini rischia di essere davvero il prossimo sindaco di Bologna ma anche perché questo strano democratico, che dice di non rimpiangere l’Ulivo, che dice di sognare un Pd all’americana e che dice di essere persino affascinato dalla teologia del professor Ratzinger, ha una caratteristica che di questi tempi ha tutta l’aria di essere merce rara tra i democratici italiani. Detto in due parole: il Cev. piace un casino e piace a tutti. E gli unici a cui sembra non piacere troppo sono i suoi compagni di partito. Il motivo? Un mistero. O forse no.

Qui l'articolo

Chi l'ha detto?

Di questi tempi, girano varie interpretazione sul significato reale di una parola misteriosa come "movimento". Continua qui.

Il punto di oggi (su Cav., Fini, Romani e Bossi)

Ci sono un sacco di cose di politica sui giornali di oggi. Tutto, e sarà così ancora a lungo, ruota attorno all’orizzonte tracciato in questi giorni da Berlusconi e da Bossi, ovvero: quando e come si andrà a votare? Non credo ci siano più dubbi. (qui per tutto il post)

venerdì 1 ottobre 2010

Clamoroso, il Pd dice sì alla massoneria

Qui.

Ragazze di vita, Rolling Stone giugno. Il caso Marrazzo un anno dopo

Il caso Marrazzo un anno dopo. Storia delle ragazzone di vita di Roma

Quando l’hanno ritrovata accucciata dentro un enorme sacco dell’immondizia con la gola tagliuzzata da sette colpi di pugnale e con il cuore che aveva smesso di battere da una dozzina di giorni, aveva ancora un anello di bigiotteria con dodici piccole pietre laterali ficcato nell’anulare destro, un paio di gustosi sandali neri con il tacco molto alto e un pacchetto di preservativi appena acquistato chiuso nella tasca stropicciata del suo cappotto color mandorla accanto a una ciocca di capelli finti e a un correttore usato la notte per coprire le macchie sulla pelle. Ansa, 28 dicembre 2009: “Ostia, recuperato cadavere nel fiume. L’inchiesta al pm del caso Marrazzo”. La corretta scansione temporale degli eventi dice che il killer l’ha abbordata, l’ha portata in macchina, le ha tappato la bocca, l’ha sentita smettere di respirare, poi l’ha ficcata nel bagagliaio di un fuoristrada e dopo aver percorso gli ottocento metri che separano il viottolo che costeggia il canneto sull’argine del fiume, a pochi passi da Ostia, e a pochi metri dall’Idroscalo, l’ha infilata in un sacco nero dandola in pasto ai topi alle nutrie che si trovano in quel territorio bonificato e lasciandola marcire lì dentro per almeno quindici giorni. Ai Ris è poi bastato un piccolo lembo di epidermide dell’indice della mano destra per dare un nome al corpo della donna: Giovanna. Qui a Ostia la conoscevano tutti, Giovanna: abitava e lavorava nella zona di Castel Fusano, a poca distanza dal fitto viale di alle porte di Ostia Antica dove la notte si ritrovava insieme con le sue colleghe (c’erano molte colombiane, diverse brasiliane e ultimamente anche parecchie argentine) e dove il suo cadavere è stato visto per la prima volta la notte di Santo Stefano. Giovanna era una di quelle generose signore che vivevano la notte strette nelle loro canottiere attillate – con scollature abbondanti, con jeans scuri attillati, borsette firmate e luci delle torce attivate con abilità intermittente per incantare quotidianamente il viandante di passaggio – il cui nome si ritrova spesso riquadrato negli annunci che compaiono dopo le offerte di lavoro alla fine dei giornali. A.A.A. Clodio transex bionda esageratissime emozioni abbondantissimo decoltè cercami A.A.A. Favolosa transessuale italiana 25enne bellissima sexy zona Cassia chiamami. A.A.A. Marconi appena arrivata trans 19enne decoltè insuperabilissime sensazioni chiamami. A.A.A. Termini potentissima trans nera grandi emozioni chiamami anche domani. A.A.A. trans grandissime emozioni 100 % disponibile veramente coccolona chiamami. A Ostia la chiamavano tutti così, “Giovanna”, sapevano che viveva sul litorale da quasi un anno, sapevano che era una delle più brave del lido, sapevano che sognava di fare l’estetista, sapevano che non aveva un permesso di soggiorno ma non sapevano che il nome di battesimo di Giovanna non era Giovanna, era un altro: era Carlos Eduardo Fernandes. E Carlos da Rio de Janerio detto Giovanna, con la sua storia, con la sua vita e con la sua esistenza vissuta nel cuore della nuova periferia romana, sarebbe piaciuta da impazzire alla penna di Pier Paolo Pasolini.

I carabinieri, forse qualcuno se lo ricorderà, hanno ripescato il corpo di Giovanna in un momento molto particolare. Erano i giorni i cui le redazioni dei giornali ricevevano quotidianamente tonnellate di veline relative a questo o a quel politico legato a questa o a quell’inchiesta a luci rosse: con i nomi di calciatori famosi, di politici rinomanti, di imprenditori affermati che comparivano in misteriosi e anonimi verbali sulle scrivanie dei cronisti. Erano insomma i famosi giorni dei trans: delle immagini che immortalavano indefinite polverine bianche depositate su fini tavoli di cristallo e dei pubblici ministeri impegnati giorno e notte a pronunciarsi sull’attendibilità di formosi omaccioni dai nomi esotici – Brenda, Jennifer, Rachele, Samantha – diventati protagonisti assoluti dell’ultimo trasgressivo e sanguinolento inverno capitolino. Un inverno in cui, quella di Giovanna, è stata, ed è ancora, una morte molto sospetta: forse legata a quella lunga serie di inquietanti intimidazioni ricevute dai transessuali romani – “Cazzi vostri se raccontate qualcosa dei vostri clienti: tenete chiuse quelle bocche” – tra l’autunno e l’inverno dello scorso anno, tra telefonate anonime, visite notturne non richieste, minacce di morte quotidiane, case in fiamme nel cuore della notte e copri ritrovati senza vita tra gli argini del Tevere. E’ successo con Brenda (la trans morta del caso Marrazzo), è successo con la sua amica Natalie, è successo con gran parte dei trans più famosi della Capitale, è successo anche con Giovanna; e non è certo una coincidenza se sul caso ha iniziato a investigare lo stesso pubblico ministero che dall’ottobre 2009 indaga sui gialli legati al caso Marrazzo (Rodolfo Gabelli). Nella storia di Giovanna c’è però qualcosa che va al di là della semplice cronaca giudiziaria, e che perfettamente rientra in quella ricca antologia dei buchi neri della città eterna in cui nascono i più affascinanti orrori di cronaca nera. Il fascino multiforme del tessuto periferico romano è stato per anni oggetto di strabilianti analisi letterarie pasoliniane, ma quelle zone effervescenti in cui la mente di Pasolini si immergeva per contaminarsi di esperienze e di ragazzi di vita altrimenti introvabili costituisce oggi il teatro di un frizzante spettacolo per certi versi infernale. Uno spettacolo dove i protagonisti vivono in un indefinito ambiente border line i cui luoghi, un tempo caratterizzati da un’irresistibile esplosione creativa, si ritrovano improvvisamente avvolti in una nube asfissiante: la cui presenza viene periodicamente svelata da fattacci di cronaca nera di cui i trans, con i loro corpi inafferrabili ed esteticamente indecifrabili, sono spesso vittime involontarie. E quando a Roma dici zona border line, quando cerchi di descrivere quello spazio misterioso che abbraccia le mura della Capitale, intendi dire qualcosa in più che una semplice zona periferica cittadina. “Si piomba – scrive Valerio Magrelli nel suo libro “Esercizi di tiptologia” (Einaudi 1992) – in un reticolo di vie, villette, prati, campi che annichilisce la facoltà di orientamento e annichilisce il paesaggio circostante. Il cataclisma ha generato aree enormi ed informi, una campagna ibridata, sintetica, mentre tintinna una spettrale catena di nomi che cinge l’urbe in una abbraccio funebre: la catenina d’oro e la marana, aureola, cintura sanitaria e pozzo nero. Pozzo nero”. Una spettrale catena di nomi che scandisce la geografia più estrema della città – il suo limes, il suo confine ultimo – con un’estetica sinistra persino nella toponomastica. E mettere insieme i nomi di questi quartieri lontani dal cuore della Capitale è quasi come battere su un tamburo. Ascoltate: Malnome, Malpasso, Malafede, Malagrotta, Valle Oscura, Passoscuro, Fosso Sanguinara, Femminamorta, Pantano dell’Intossicata, Campo di Carne Ponte del Diavolo, Cessati Spiriti, e Fontana del Bandito, Quarto de l’Impiccati, Coccia di Morto, Valle della Morte, Colle delle Forche, Canale del Morto, Canale del Mortaccino, Cavallo Morto, Lestra della Morte, Caronte, Piscina della Tomba, Pantano dell’Inferno e l’Infernetto: ovvero quel piccolo quartiere cerniera tra Roma e Ostia in cui Pasolini spesso capitava e in cui Giovanna da tempo vi abitava.

Le storie periferiche dei transessuali romani rivelano anche un tratto un po’ politico e un po’ antropologico non proprio insignificante. Gli anni ruspanti di Pasolini erano infatti coincidenti con una forte presa della parte politica che lo scrittore rappresentava (i comunisti) proprio nelle zone in cui nacquero super romanzi come Ragazzi di vita (1955). All’epoca, Roma era il simbolo di quelle periferie che avevano iniziato ad arricchire di consensi il bacino elettorale dei partito comunista, e nelle strategie di conquista degli effervescenti territori marginali di una Capitale la grande scuola della sinistra romana era diventata un modello per tutto il resto dell’Italia. Una volta morto Pasolini, Roma non ha più trovato un intellettuale capace di rielaborare con intelligenza le esigenze di quelle estreme zone romane inevitabilmente diventate nel corso degli anni (vedi per le ultime elezioni) il simbolo della disfatta del centrosinistra in questa preziosa porzione d’Italia. “A Roma – ci racconta l’ex vicesindaco Walter Tocci, che oltre che essere stato comunista ammette anche di essere un pasoliniano de fero – il problema dei confini della città, non solo urbanistico ma soprattutto letterario, è quello di avere una serie di nuclei chiusi separati l’uno dall’altro che determinano una frequente ricorrenza di oscure sacche geografiche all'interno della città. E’ in queste zone, in questi margini discontinui che oggi più di ieri avrebbero fatto impazzire d’amore Pasolini, che si sono verificati omicidi come quello di Giovanna Reggiani, stupri come quelli degli sposini olandesi e assassini come quelli dei trans, e come quello di Ostia. Si sa: a Roma, probabilmente più che in ogni altra città d’Italia, la parola marginalità coglie sia il significato sociale che quello urbanistico”. Ed è proprio in questo gioco perverso dove diabolicamente si mescolano rossetti, fondo tinta, tacchi alti, correttori, sacchi neri, preservativi e donne labbrute con barba sfumata e ottava di reggiseno; in questo gioco dove lussuosi cantieri navali del porto turistico di Ostia tornano periodicamente a simboleggiare un preciso cambio di paradigma culturale Pasolini, se fosse ancora vivo, si sarebbe certamente fermato per prendere carta e penna, per studiare il caso di Brendona e di Giovannona e scrivere un gran libro ambientato a Ostia e intitolato probabilmente più o meno così: “Ragazzone di vita”.
Claudio Cerasa
Rolling Stone, luglio 2010

Via Poma, su Rolling Stone di agosto

Uomini (forse) che uccidono le donne.

Dopo vent'anni di indagini, ma senza alcuna prova schiacciante, a giorni riparte il processo sul delitto di via Poma. Ma allora perché tutti questi finti scoop sul Dna? Facile: basta fare un giro su Google Map

Vent’anni dopo siamo ancora a quella sorridente ricciolina in bianco e nero fotografata con le gambe stese su un telo di spugna poggiato su una poco confortevole spiaggetta di uno squallido litorale romano. Vent’anni dopo siamo ancora alle raffinate disquisizioni sulle evoluzioni delle indagini, sui rilievi della scientifica, sulle attendibilità dei testimoni e sulle ultime documentazioni fotografiche in base alle quali i pubblici ministeri continuano a valutare appassionatamente le compatibilità delle arcate dentarie degli ex fidanzati della ragazza romana. Vent’anni dopo la parola Cesaroni ha persino fatto in tempo a trasformarsi nel titolone di una fortunata serie televisiva ambientata nell’allegro quartiere periferico della Garbatella, ma nonostante le spensierate performance del gagliardo Giulio, interpretato da Claudio Amendola, e della dolcissima Elena Sofia Ricci, nella parte di Elena, la verità è che Cesaroni resta ancora per la capitale il cognome che ha terrorizzato per anni un’intera generazione di pischelletti romani. E quando pensi a quel cognome, a Roma, diventa tutto un flash: la palazzina liberty, gli ingressi a forma di portici, le colonne ricoperte di travertino, le fontane di marmo fasciate di oleandri e poi il portiere, il fidanzato, l’architetto, la notte del sette agosto, il reggiseno slacciato, i seni scoperti, il top arrotolato, le mutandine strappate, i calzini bianchi, le scarpe da ginnastica e soprattutto il nome di quella stradina incisa sul marmo di uno dei palazzi ormai più popolari di Roma: via Poma.
Ho vissuto per quindici anni a ottocento metri dalla scena del delitto più famoso degli ultimi vent’anni. Via Poma è una stradina nel cuore del quartiere residenziale Prati, una zona di vecchi cannetti a due passi da San Pietro, a pochi metri da viale Angelico, a tre fermate dallo stadio Olimpico, piena zeppa di studi di avvocati, di caserme di militari, di licei fricchettoni, di terrazzi di giornalisti, di studi di registi, di agenzie fotografiche, di case cinematografiche e di elegantissime scuole medie ed elementari. E chiunque all’epoca frequentasse quelle scuole, davanti a via Poma ci passava ogni giorno – e solitamente, lo dico per esperienza, ci si pisciava sotto. C’era chi deviava, chi accelerava, chi temporeggiava, chi si scoraggiava e chi semplicemente, ogni volta che sfiorava il cancello del palazzone da cui non molto prima era uscito il corpo freddo di Simonetta, chiudeva gli occhi e subito se ne scappava.
Per anni e anni, a Roma il caso Cesaroni è stato il simbolo del ventre sofferente di una città che da decenni si ritrova condannata a convivere quotidianamente con l’insostenibile peso dei suoi misteri irrisolti: un flusso continuo di indecifrabili enigmi che spesso costringe il romano a ritrovarsi come se fosse protagonista di un grande giallo in cui quei delitti vivono insieme tutti quanti senza che sia più possibile distinguere i singoli particolari: da via Poma all’Olgiata, da Emanuela Orlandi a Marta Russo e così via. E in quel periodo, per chi abitava nel quartiere del grande giallo, del giallo di Simonetta, era facile avere un amico che viveva a via Poma, una compagna che era figlia di uno dei portieri, una maestra che abitava vicino alla casa di Simonetta, un conoscente con lo studio di fianco al luogo del delitto. Ed è facile immaginare come ognuno di noi, ognuno dei compagni, su via Poma aveva un flash sinistro: c’era chi in quella via giurava di aver visto più un’ombra sospetta; chi scambiava ogni fruscio per una minaccia; chi raccontava di una confidenza segreta; e chi ogni giorno ripiegava in una cartellina spiegazzata i dettagli di quella storia così travagliata. Una storia ambientata in una Roma che in quei giorni era terribilmente assetata di notizie. Era quella la Roma delle rivoluzioni urbanistiche, la Roma dei Montezemolo con i primi telefoni cellulari, ma era soprattutto la Roma delle sue storiche notti magiche dei campionati mondiali: con Zenga, Schillaci, Maradona, Matthäus, Brehme, Caniggia, Taffarel e tutti gli altri. E fu proprio la fine dell’epica nazionalpopolare dell’appena concluso campionato Mondiale che in quei primi giorni di agosto aveva contribuito a creare una domanda di notizie che dopo le cronache calcistiche sarebbe stata possibile soddisfare solo se ci fosse stato un’altra grande storia da raccontare. Ogni estate, si sa, i giornali privi di grandi spunti suggeriti dall’attualità si rifugiano nelle paludi della cronaca per scovare indicazioni utili a saziare i lettori sempre più affamati di storie che valgano il prezzo del biglietto, e riempire le pagine con le notizie sulle spiagge chiuse per improvvise invasioni di meduse, o con drammatici reportage sugli ultimi esemplari di balene rinvenuti sulle coste della Papa Guinea, può essere utile per qualche settimana ma alla lunga un pochino stanca: e anche per questo, e soprattutto in quel periodo, i misteri di via Poma arrivarono in un momento semplicemente perfetto. Ma c’è di più. Come oggi cinicamente ricordano molti cronisti che vent’anni fa scarpinarono a lungo tra le rampe liberty degli ampi androni del palazzo di via Poma, beh, il delitto di Simonetta arrivò non solo nel momento giusto ma anche nel posto giusto. Perché chiunque avesse avuto la possibilità di passeggiare negli anni Novanta attorno a quella via che pareva stregata sapeva che una delle ragioni per cui via Poma ebbe una così grande, per non dire maniacale, copertura da parte delle forze giornalistiche era facile da comprendere: via Poma si trovava giusto a pochi metri dai palazzoni di Viale Mazzini, la sede storica della Rai, e non è dunque poi così complicato capire quale ghiotta occasione fosse per i cronisti seguire il delitto del secolo a due passi due dalla propria scrivania. Ma, oltre a soddisfare l’esigente pubblico maledettamente desideroso di notizie, quella straordinaria copertura mediatica contribuì a creare un vero e proprio cortocircuito attorno all’omicidio. Il delitto di Simonetta è stato infatti uno dei primi casi in cui gli inquirenti si sono ritrovati a dover fare i conti con una così imponente opinione pubblica che altro non chiedeva a poliziotti e investigatori di tirar fuori, con una certa fretta, quel dannato omicida. E si sa: quando il pubblico ringhia affondando i denti sul collo degli investigatori – datece er mostro, datece l’orco, datece subito quel maledetto assassino –chi dirige le indagini si ritrova nelle condizioni di mollare ogni tanto qualche osso al cane affamato. E di ossi, le strade di via Poma, ne sono piene da quasi vent’anni.
Il primo osso si chiamava Pietro Vanacore: era il portiere dello stabile di Simonetta, venne accusato di aver ripulito il luogo del delitto, fu incastrato per un paio di macchie di sangue ritrovate sul tessuto dei propri pantaloni e fu arrestato per ventisei giorni; poi si scoprì che quelle macchie non erano di Simonetta ma erano proprio di Pietro (che sì, soffriva di emorroidi), quindi Pietrino uscì dal carcere, continuò a vivere per un po’ a Roma, poi si trasferì in Puglia e a vent’anni di distanza dall’arresto, il nove marzo di quest’anno, tre giorni prima della sua testimonianza alla prima udienza (sì sì: la prima) del processo di via Poma, Pietrino è stato ritrovato morto sulla spiaggia di Torre Ovo, vicino Torricella, in provincia di Taranto; e poco lontano dal luogo dove venne ripescato il corpo furono recuperati anche due biglietti sul sedile della sua auto. Il primo: “Venti anni di sofferenze e di sospetti ti portano al suicidio”. E poi il secondo: ‘‘Vent’anni di persecuzioni: sono stanco delle angherie’’.
Il secondo osso dato in pasto ai cronisti si chiama invece Raniero Busco: ha 44 anni, due figli, una moglie e un’accusa di omicidio sulle spalle. Busco è stato l’ultimo fidanzato di Simonetta, ha incontrato la ragazza la sera prima dell’omicidio e l’indizio principale contro di lui risulta essere l’impronta di un morso rinvenuto sul seno sinistro della ragazza, fotografato durante l’autopsia e considerato dall’accusa corrispondente all’arcata dentaria proprio dell’ex fidanzato. Questo, solo questo: perché vent’anni dopo a via Poma molto altro non c’è: solo una traccia genetica estratta dalla saliva di un indagato che con tutta la buona volontà possibile si fa fatica a considerare una prova schiacciante. Ecco sì, difficile non ammetterlo: chiunque sia stato in qualche modo a contatto in questi anni con l’universo in cui si è generato il misterioso caso di via Poma ha avuto la possibilità di accorgersi di un particolare che non può essere sfuggito neanche all’occhio dell’osservatore più distratto. Inutile girarci attorno: col passare del tempo il delitto di Simonetta è diventato l’esempio perfetto di quali siano i più velenosi tra gli ingredienti con cui un’inchiesta giudiziaria può trasformarsi in una polpetta avvelenata: indagini infinite, esami inadeguate, prove irrilevanti, interrogatori fuorvianti, indagati innocenti e piste il più delle volte completamente toppate. E che il caso di Simonetta sarebbe stato quasi impossibile da risolvere ce ne accorgemmo una mattina di quindici anni fa, quando tra gli articoli raccolti nella speciale rassegna organizzata dagli studenti del quartiere spuntò fuori una notizia che speravamo fosse falsa; e che invece, dannazione, era proprio vera. La notizia riguardava i risultati di quella che all’epoca veniva definita una “tecnica di indagine rivoluzionaria” e che invece, in fin dei conti, si rivelò essere un mezza cialtronata. La storia della comparazione genetica con il sangue prelevato dalle vene di una quindicina di indagati, e le successive entusiastiche dichiarazioni degli investigatori che ripetevano alla stampa di essere ormai “prossimi alla cattura dell’assassino”, si trasformarono in un boomerang che fini dritto negli occhi degli investigatori. E le famose tracce rosse lasciate dall’assassino sulla porta della stanza dove Simonetta venne torturata vennero clamorosamente custodite per un giorno intero non nel fresco di un laboratorio specializzato ma nel caldo umido di un obitorio romano. Forse in pochi oggi se ne ricordano, ma di quel pasticcio gli investigatori se ne accorsero solo il 23 agosto, tredici giorni dopo l’omicidio: quando il sangue incriminato si era di fatto volatilizzato proprio come le uniche tracce dell’assassino di quella ricciolina della foto in bianco e nero.
Claudio Cerasa
Rolling Stone, agosto 2010