venerdì 15 gennaio 2010

La Presa di Roma sulla Stampa/ 3

La Presa di Roma sulla Stampa/3

Augello, lo stratega che dopo Roma prova a conquistare il Lazio

Il problema, disse Andrea Augello, fu di esaltare in Gianni Alemanno le qualità che facessero gola agli elettori moderati in prestito alla sinistra. «Lo abbiamo fatto così bene, che alla fine abbiamo preso voti di sinistra, di sinistra vera».

Oggi si discute ancora su quanto abbia inciso il lavoro di Augello nella presa di Roma. Quanto gli deve Alemanno? E quanto gli deve per la sconfitta di due anni prima, quando rivinse Walter Veltroni al termine di una campagna elettorale cui Augello si era rifiutato di prendere parte? Lui, Augello, oggi la risolve così: «Nel 2006 Alemanno non ha perso perché non c’ero io, ma non c’ero io perché Alemanno avrebbe perso». In ogni caso, se ne discute ancora perché nel centrodestra, con fantasia traballante, c’è chi dice che Augello è come quel mister Wolf di Pulp Fiction, uno che arriva quando c’è un guaio da risolvere.

E se ne discute per pronosticare quanti voti di sinistra, di sinistra vera, sarà capace di portare a Renata Polverini. Una che, sull’altra sponda, gode già di qualche simpatia. Andrea Augello è nato nel 1961 e con Claudio Velardi, Fabio Rampelli e Beatrice Lorenzin è nella squadra che deve portare la Polverini nella stanza di governatore del Lazio che fu di Piero Marrazzo. Di Velardi si sa tutto. Ex comunista, ex Pds, ex Ds. Era uno dei Lothar di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi ed è considerato un estroso della comunicazione. Fabio Rampelli, come Augello, è un ex del Movimento sociale. Inutile riparlare degli anni delle botte in piazza eccetera. Oggi si sintetizza così: Augello ha saputo rimettere alla stessa tavola il partito e la borghesia romana, che per decenni aveva avuto imbarazzo, se non schifo, a fare comunella coi neri.

E la faceva coi rossi o i bianchi. Rampelli ha saputo rimettere alla stessa tavola la borghesia e il popolo. Quanto a Beatrice Lorenzin, lei ha tutta un’altra storia. E’ nata a San Camillo, Roma, trentotto anni fa. Ha fatto sempre politica in Forza Italia e nel ‘99, quand’era ragazzina, Silvio Berlusconi la fece coordinatore regionale. I risultati sono arrivati. Lei è una che conosce le periferie, Ostia e Acilia, soprattutto, e alle Politiche del 2006 si vide il risultato perché lì, in alcune delle borgate rosse, Forza Italia divenne il primo partito. Di tutti questi, Augello è però il più interessante. E’ un esempio perfetto di quella destra nuova, venuta su negli anni Ottanta, e che uscì dalle catacombe cominciando col cambiarsi la camicia.

In una cronaca del ‘93, è una destra descritta così: «Quasi tutti vestono come i compagni di un tempo, maglioni, pantaloni a tubo, qualcuno coi capelli lunghi, scarpe Clark, c’è persino una borsa di Tolfa». Nella Presa di Roma, libro di Claudio Cerasa, il ritratto di Augello è questo: «E’ sempre stato l’espressione di quella destra considerata un po’ pariola, un po’ chic, senza più pantaloni stretti e anfibi neri ma con Fred Perry e New Balance». E cioè: «Quei militanti in giacca e cravatta che da diciottenni, invece che sognare la rivoluzione, sognavano di fare i deputati». E però raccontano che un giorno si prese male con Maurizio Gasparri, fra i due cominciò una discussione aspra, e Augello, che è ben più grosso, prese Gasparri e gli infilò la testa in una pozzanghera; che sia storia vera o una balla conta poco: che la si racconti dice molto della fama di Augello.

Che, adesso, ha quella dell’erede di Goffredo Bettini, per delicatezza del tratto e capacità di stare nel mondo, ma poi è uno che ha amicizie (così si dice) fra i tassinari più incattiviti. Che nasce nella tradizione della destra sociale, e quindi non stupisce se stringe sodalizio con Anna Finocchiaro del Pd, ex comunista, insieme con la quale presenta un libro sulla strage dimenticata di Gela, anno 1943. Tesi del libro: fu tutta colpa degli americani. E insomma, si va a finire lì. Metti assieme uno come Velardi, una di strada come la Lorenzin, uno come Rampelli, li fai coordinare da Augello e viene in mente che nel Lazio, Alemanno più Polverini, la somma fa Fini. La Lorenzin dice che è banale: «Sarebbe tutto vero soltanto se noi fossimo il Pd, dove ci si combatte tra fazioni».

Augello ricorda che «nella storia del centrodestra, Fini ha la fiche di Roma almeno dal 1993». Tutta la classe dirigente (Silvano Moffa, Francesco Storace, Alemanno) è stata roba sua. Aggiunge che «se conquistassimo la Regione, la vittoria di Roma uscirebbe dalla categoria di episodio e prenderebbe la forma di una nascente polarità del centrodestra». Cioè un modo di fare governo. Un modo nuovo. Ma lì in mezzo qualcuno dice: con un potere simile, Fini si sentirebbe etologicamente più rassicurato, e forse non ne avrebbe tutte le ragioni.

Mattia Feltri
15/01/2010

domenica 10 gennaio 2010

La Presa di Roma sulla Stampa/2

8/1/2010 -
D'Alema e Alemanno biografie parallele
MARCELLO SORGI
La lettura incrociata di due libri usciti di recente rivela come i meccanismi della presa del potere, non solo si assomiglino, ma prescindano in gran parte dalla natura e dall'orientamento politico (destra o sinistra) di chi prende lo scettro. Claudio Cerasa, giornalista del Foglio (La presa di Roma, Bur futuro passato, euro 9,80), e Alessandra Sardoni, giornalista de La 7 (Il fantasma del leader, Marsilio Tempi, euro 16,50) analizzano rispettivamente la sorprendente ascesa al Campidoglio di Gianni Alemanno, il primo sindaco di destra della Capitale dopo quindici anni di dominio ininterrotto della sinistra, e l’incolmabile vuoto di leadership del Pds-Ds-Pd, dopo la fine del partito-chiesa comunista. 

I due protagonisti, avversari nella vita politica di tutti i giorni, hanno in comune alcuni aspetti delle loro (diversissime) biografie: rappresentano, nei loro partiti, due figure fortemente identitarie, la «destra sociale» Alemanno e i post-comunisti D’Alema. Nei Palazzi che occupano o hanno occupato (il Campidoglio e Palazzo Chigi), sono arrivati a sorpresa: Alemanno non era affatto dato per vincente nella primavera del 2008, quando Rutelli tentò per la terza volta di tornare a fare il sindaco di Roma. E D'Alema fu addirittura accusato di aver ordito un complotto, per scalzare Prodi e arrivare alla presidenza del consiglio sulla base di un nuovo ribaltone e senza un passaggio elettorale. 

Forse dipende anche da questo - dalla necessità, cioè, di stabilizzarsi, dopo le tumultuose arrampicate che li hanno portati in sella - l’uso di regole o di tecniche di potere abbastanza simili. Prima di tutto, l’occupazione di territori inesplorati o abbandonati dai loro predecessori: per Alemanno, la periferia e le borgate una volta polmoni di consenso della sinistra, poi abbandonate in omaggio alla politica di Veltroni fatta di eventi (Festa del cinema, Notti bianche) e ambientata, per forza di cose, sullo scenario spettacolare del centro della Capitale. Quanto a D’Alema, la famosa visita a Cologno Monzese nella sede storica di Canale 5, quando il futuro primo premier post-comunista riconobbe che la tv commerciale era una delle maggiori industrie culturali del Paese. 

Seconda regola, l’uso di «issues» e tematiche inusuali o eretiche rispetto alle proprie culture di provenienza: per Alemanno il «sociale» spinto fino ai limiti del corteggiamento dell’elettorato sottoproletario più tradizionalmente vicino alla sinistra radicale. E per D’Alema la tecnocrazia, frequentata in tutte le sue espressioni pubbliche e private, dai manager privati agli alti gradi delle forze armate, con l’aggiunta di un distacco polemico e progressivo dai sindacati. Infine, terza e regina delle regole, il trasversalismo: per Alemanno l’apertura ai dalemiani, nemici dichiarati di Veltroni nel Pd, e per D’Alema il braccio teso a Berlusconi, obiettivo pregiudiziale di Prodi e Veltroni. Cioè, in altre parole, la consapevolezza che gli avversari e le alternative esistono solo in campagna elettorale. E il giorno dopo che hai vinto, una parte degli sconfitti è già pronta a far patti con te. 

Autore: Claudio Cerasa
Titolo: La presa di Roma
Edizioni: Bur
Pagine: 300 
Prezzo: 9,80

Autore: Alessandra Sardoni
Titolo: Il fantasma del leader
Edizioni: Marsilio
Pagine: 335 
Prezzo: 16,50

La Presa di Roma sull'Unità

Le mani sulla Capitale: luci e ombre sulla vittoria della destra

di Maria Grazia Gerina

Tutto inizia con l’immagine di una città che in una notte trascolora dal rosso al nero. E una scena di grande suggestione: Alemanno da pochi minuti è il primo sindaco missino della capitale, si affaccia a festeggiare vittoria dal balcone sul Campidoglio. E sussurra: «Presa». Alla città che per quindici anni è stata laboratorio e vetrina del centrosinistra, dell’Ulivo, del Pd. Ecco, l’«inizio» è questo, in technicolor. Il resto delle 208 pagine scritte da Claudio Cerasa per raccontare ancora a caldo La presa di Roma (pagine 300, euro 9,80, Bur Biblioteca Universale Rizzoli, collana Futuropassato) servono a riavvolgere il film, ad andare dietro le quinte. A mettere in fila le domande giuste: «Chi comanda quando la Capitale cambia colore? Che volto hanno i nuovi padroni? Dove si nascondono i veri poteri?». Per capire come si sia costruita una vittoria. Impensabile fino a pochi mesi prima. E già diventata un caso da manuale. Se davvero - come confida lo spin-doctor di Alemanno, Umberto Croppi all’autore - persino l’ambasciata Usa ha chiesto infformazioni sulla campagna elettorale di Alemanno per farne oggetto di studio. Il RAGAZZO DEL FRONTE 28 aprile 2008, Gianni Alemanno, l’intemperante ragazzo del Fronte che amava i campi Hobbit, il genero di Pino Rauti, il custode dei «valori della destra» capace di tenere testa anche a Fini, in An prima e nel Pdl poi, diventa sindaco di Roma con 200mila voti in più di Francesco Rutelli, scelto dal centrosinistra come estremo baluardo di tre lustri di governo. Il cuore del libro è proprio la storia di quei 200mila voti. Duecentomila voti conquistati da Alemanno che - ricorda l’autore - sono soprattutto duecentomila voti persi da Rutelli rispetto alle precedenti vittorie del centrosinistra, visto che il perdente Tajani nel 2001 aveva ottenuto 746mila voti contro i 783mila voti del vincente Alemanno. IL CAVALLO SBAGLIATO La scelta del «cavallo» sbagliato, la fine di un ciclo, la rottura di equilibri che per quindici anni avevano consentito al centrosinistra di governare... Soprattutto - è il capitolo più interessante del libro - la perdita di contatto con i bisogni delle periferie. Viste dal centrosinistra le ragioni della sconfitta possono essere tante. Ma non c’è dubbio che l’asso nella manica dei nuovi conquistatori sia stato soprattutto uno: la capacità di cavalcare un tema che a Roma fino a due anni prima non veniva preso in considerazione. Qualcosa di impalpabile come la promessa della sicurezza. Nel capitolo «La vittoria della paura», Cerasa la ripercorre fotogramma per fotogramma. Dall’uccisione di Giovanna Reggiani, appena scesa dalla stazione di Tor di Quinto, allo stupro di una ragazza del Lesotho, vicino alla stazione de La Storta, a dodici giorni dal ballottaggio. «Quella sera, alle ventuno e due minuti, di fronte alla stazione della Storta - a dodici chilometri dal Colosseo e quindici minuti dallo Stadio Olimpico - due rumeni si avvicinarono a una ragazza sudafricana… La campagna elettorale si decise in quella malandata stazione ferroviaria: lo stupro della ragazza sudafricana diventò il soffio di vento con cui il centrodestra provò definitivamente a invertire la rotta politica della città», scrive Claudio Cerasa. E pazienza se il suo «salvatore», l’angelo della Storta, testimonial del patto per la legalità siglato da Alemanno nella redazione del quotidiano di Francesco Gaetano Caltagirone, era in realtà - si scoprì - un personaggio tutt’altro che angelico, con tanto di precedenti penali. Molto più di queste piccole sbavature a scoprire il gioco di cartapesta messo in piedi dalla destra nella campagna elettorale del 2008 è un sondaggio datato marzo 2009. Il sondaggio, curato dall’Eures, registra che il 50,1% dei romani lontano dal sentirsi finalmente protetto si sente invece più insicuro, che il 50,5% non ha notato cambiamenti di rilievo e che solo il 4,5% si sente più protetto. Se la sorprendente vittoria del centrodestra a Roma è stata soprattutto «La vittoria della paura», quel consenso costruito proiettando sulla città eterna l’ombra di un crimine. ROMA mgerina@unita.it

4 gennaio 2010

La Presa di Roma sul Giornale

Fini, Casini, D'Alema: la triade che punta a far fuori Silvio

I centristi vanno a sinistra dove i candidati sono dalemiani e a destra dove corrono gli ex aennini
È da giugno che se ne parla, sottovoce. Qualcuno ha cominciato a dire, a scrivere qua e là di questo strano gioco di sponda. Il buono, il bello e il cattivo. Fini, Casini e D’Alema. Tutti e tre a cercarsi, inciuciarsi, sottocoperta, nei crocicchi di qualche fondazione, ai convegni a porte chiuse dove siedono solo i migliori, all’ombra delle banche e nel cuore di Roma. Erano i tempi in cui D’Alema faceva il rabdomante e davanti a Lucia Annunciata profetizzava serio: è in arrivo una scossa. Quale? Mistero. Forse le escort, forse Spatuzza. Nessuno sapeva, ma loro già immaginavano. Tutti e tre comunque erano convinti che per il berlusconismo stesse suonando l’ultima campana. Bisognava pensare al dopo e intanto lavorare per l’ultima spallata.
È da qui che nasce il triumvirato di quelli che pensano al futuro. Un futuro a tre: Fini a destra, D’Alema a sinistra, Casini al centro e tutti gli altri in fuorigioco. Questo doveva essere l’assetto tripolare della Terza Repubblica. Il tre, in fondo, è un numero magico. Un blog politico, tre giorni prima di quella scossa annunciata, aveva trovato per loro anche un nome classicheggiante: gli ottimati. Come i senatori nemici di Cesare, come Catone e Metello Scipione, come Bruto e Cassio, come i boni viri, gli uomini buoni, i migliori, quelli che vogliono restaurare i costumi dell’antica repubblica. Doveva essere la rivincita dei politici di professione. Tutti e tre con una solida storia da Prima Repubblica alle spalle.
Non tutto è andato come gli «ottimati» speravano. Berlusconi è sopravvissuto alle scosse, le parole di Spatuzza sono rimbombate nel vuoto, l’aggressione al Duomo ha smorzato per un po’ la voglia di cavaliericidio e quello che è rimasto della buona alleanza è un patto, un triangolo asimmetrico, per le elezioni regionali. Il famoso doppio forno di Casini. L’Udc con chi va? Semplice, con Fini e D’Alema. Nei territori dove Fini è riuscito a strappare un suo candidato, Scopelliti in Calabria e Polverini nel Lazio, Pier Ferdinando sta con lui. Dove spuntano i dalemiani, come in Piemonte con la Bresso e magari in Puglia, Casini volge lo sguardo a sinistra. Il resto verrà dopo. L’importante è mettere su qualche roccaforte dove sperimentare il futuro. Non è la Terza Repubblica, ma è meglio di niente.
È chiaro che le ragioni non sono solo politiche. Ci sono anche gli affari in questa storia. Ne è convinto uno che il triumvirato sta cercando di spazzare via. Vendola è convinto che il veto contro di lui abbia a che fare con l’acqua: «Abbiamo toccato interessi forti. Il no all’operazione Acquedotto Pugliese ha scontentato importanti gruppi nazionali, come quello che fa capo a Caltagirone». Roma è la chiave del patto. Claudio Cerasa, giornalista del Foglio, racconta nel pamphlet-inchiesta La presa di Roma le origini del partito trasversale degli ottimati. E il ruolo di Caltagirone è centrale. È il suocero di Casini. È lui che ha permesso a D’Alema di develtronizzare la Città Eterna. È alleato di Alemanno, che non ha gradito la scelta della Polverini, ma per ora si sta limitando a giocare una partita a scacchi con Fini, con cui non è socio ma neppure nemico. Gianfranco sta cercando di portarlo dalla sua parte, anche se il sindaco di Roma nicchia. Non lo convince la linea laicista dell’ex leader di An e neppure è pronto a sposare le sue avventure politiche. Ma non chiude la porta.
Il modello da esportare in Puglia e in altre regioni è quello dell’Acea, la vera cassaforte di Roma. Racconta Cerasa: «L’Acea è il laboratorio della grande intesa bipartisan. L’azienda è controllata al 51 per cento dal Comune di Roma e ha come azionista di riferimento la famiglia Caltagirone. A metà aprile del 2009 il candidato ufficiale del Pd al consiglio di amministrazione fu bruciato. Al suo posto fu scelto un dalemiano di ferro come Andrea Peruzy, tesoriere della fondazione Italianieuropei». D’Alema a Roma sta cancellando Veltroni e lo sta facendo con l’aiuto del suocero di Casini e degli ex An. Fini a giugno si è inserito nella partita. La prima mossa ha già scontentato una parte dei suoi alleati. Alemanno e Caltagirone volevano Augello, lui ha imposto la Polverini. La Terza Repubblica che sognano gli ottimati è ancora molto lontana. Tutti nel frattempo hanno capito una cosa: la strada per arrivarci passa per le riforme, e per farle c’è bisogno di Berlusconi. Il gioco di prestigio di far finta che il Cav non esista, a quanto pare, non funziona.
Vittorio Macioce
7/1/10